Gavrilo Princip – Dove tutto ebbe inizio

S:2 – Ep.33

Gavrilo Princip è una persona qualunque.

Da ormai 32 episodi raccontiamo storie più o meno conosciute del periodo storico della prima guerra mondiale, guerra, iniziata ufficialmente quando l’arciduca Francesco Ferdinando erede al trono venne assassinato, assieme alla moglie Sofia, da un terrorista.

Francesco Ferdinando era nipote (figlio del fratello) dell’imperatore Francesco Giuseppe I d’Austria e, al momento della sua nascita, terzo in linea di successione al trono dopo il cugino Rodolfo e il padre.

Nel 1889 il cugino Rodolfo si suicidò a Mayerling senza lasciare eredi maschi e Carlo Ludovico, padre di Francesco Ferdinando, divenne il primo in linea di successione, così, quando nel 1896 il padre morì Francesco Ferdinando divenne l’erede al trono austro-ungarico.

Ma l’imperatore Francesco Giuseppe, nonostante l’età avanzata, mantenne saldamente il potere e lo tenne sempre lontano dalle decisioni di governo, come del resto aveva fatto in precedenza con il figlio Rodolfo.

Non è noto con sicurezza dove Sophie abbia incontrato per la prima volta l’arciduca erede al trono austro-ungarico, sebbene molte fonti indichino che l’incontro sarebbe avvenuto durante un ballo a Praga, forse nel 1894.

Sophie e Francesco Ferdinando tennero segreta la loro relazione per diversi anni ma quando l’erede al trono iniziò a fare regolari visite nella casa dell’arciduca Federico d’Asburgo-Teschen, divenne di dominio pubblico che era innamorato della figlia di lui e scoppiò uno scandalo pubblico.

L’imperatore Francesco Giuseppe chiarì subito al principe Francesco Ferdinando che non avrebbe mai potuto sposare Sophie perché per essere una candidata ufficiale ad entrare a far parte della famiglia imperiale, avrebbe dovuto appartenere ad una delle famiglie regnanti in Europa o almeno ad una delle precedenti dinastie regnanti.

La famiglia Chotek non apparteneva a nessuna di queste categorie, Francesco Ferdinando replicò che in quel caso non avrebbe mai sposato nessun’altra candidata. Guglielmo II di Germania, lo zar Nicola II di Russia ed il papa Leone XIII furono coinvolti per intercedere in favore del volere imperiale affinché il contrasto tra Francesco Giuseppe e Francesco Ferdinando non minasse la stabilità della Corona imperiale.

Il suo matrimonio con la contessa Sophie Chotek von Chotkowa fu autorizzato solo dopo che la coppia ebbe accettato che la sposa non avrebbe goduto dello status di reale e che i loro figli non avrebbero dovuto avere pretese al trono, Francesco Giuseppe non partecipò alla cerimonia del matrimonio, così come non vi partecipò il fratello dello sposo, Ferdinando Carlo.

Nei primi anni del 20° sec. andarono delineandosi due blocchi contrapposti: Francia e Gran Bretagna, da una parte, saldarono la loro alleanza nell’Intesa cordiale del 1904 e dall’altra, gli ‘imperi centrali’, Austria-Ungheria e Germania, legarono a loro l’Impero ottomano.

Negli stessi anni le crisi internazionali si fecero ricorrenti, in particolare a seguito dell’annessione della Bosnia-Erzegovina da parte dell’Austria-Ungheria che alimentò gli scontri nei Balcani, principale focolaio di tensioni insieme con la competizione franco-tedesca.

Dopo l’attentato dell’arciduca, l’Austria-Ungheria, ottenuta mano libera dalla Germania, lanciò un ultimatum il 23 luglio 1914 alla Serbia, ritenendola corresponsabile e il 28 luglio l’Austria dichiarò guerra alla Serbia.

La catena delle alleanze fece precipitare la situazione: la Russia rispose con una mobilitazione generale, la Germania dichiarò guerra alla Russia e poi alla Francia, quindi violò la neutralità di Lussemburgo e Belgio e questo atto di forza decise l’ingresso in guerra della Gran Bretagna contro la Germania.

Poche settimane dopo anche il Giappone entrò nel conflitto, in quanto alleato della Gran Bretagna; Francia, Gran Bretagna e Russia sanzionarono con il Patto di Londra una vera e propria alleanza.

La Turchia, timorosa della Russia e legata alla Germania, decretò la chiusura degli stretti alla navigazione commerciale e si unì agli Imperi centrali.

Il Portogallo si schierò a fianco dell’Intesa.

Tutto iniziò, per l’appunto, quando Ferdinando e Sofia furono uccisi con due colpi di pistola da una persona qualunque, un terrorista serbo che si chiamava Gavrilo Princip.

Gavrilo nacque il 25 luglio 1894 in Bosnia Erzegovina, all’epoca territorio amministrato dall’Austria-Ungheria ma soggetto alla sovranità formale dell’impero ottomano.

Era il sesto di nove fratelli e fu uno dei soli tre a sopravvivere durante l’infanzia, era figlio di un postino e la sua gioventù fu segnata dalla povertà e dalle precarie condizioni di salute: contrasse la tubercolosi da bambino.

Studiò presso la Scuola Commerciale a Sarajevo e in seguito si iscrisse alla Scuola superiore ma durante la sua infanzia presso la Scuola Commerciale si distaccò apertamente dai movimenti radicali serbi delle organizzazioni giovanili private.

Divenuto adolescente, nel 1912 fu mandato a Belgrado per continuare la sua istruzione ma abbandonò gli studi quando venne coinvolto nel movimento ultra-nazionalistico serbo, unendosi a un’associazione politico-rivoluzionaria, la Giovane Bosnia, il cui obiettivo era liberare la Bosnia Erzegovina dal dominio dell’Impero austro-ungarico e annetterla al regno di Serbia.

L’organizzazione Giovane Bosnia, nata a Sarajevo agli albori del XX secolo, ebbe dapprima lo scopo ultimo di liberare il territorio bosniaco occupato dal nemico austriaco, senza però essere guidata né da alcuna ideologia comune né da dogmi.

L’attentato vide la partecipazione, oltre a Princip, anche di altri cinque membri della Giovane Bosnia, il gruppo era armato di pistole e bombe, fornite da una società segreta, la Mano Nera, che aveva anche molti sostenitori tra gli ufficiali serbi e i funzionari del governo.

La Mano Nera, ufficialmente Unificazione o Morte, fu una società segreta fondata in Serbia nel maggio del 1911 come parte del più ampio movimento nazionalista pan-slavo, che aveva come obiettivo quello di unire sotto lo stesso Stato tutti i territori con popolazioni serbe, ovvero la Bosnia ed Erzegovina e il Montenegro.

Il gruppo annoverava una vasta gamma di ideologie, dagli ufficiali militari favorevoli alla cospirazione fino agli studenti idealisti tendenti ad ideali repubblicani, a dispetto dell’ideologia fortemente nazionalistica del movimento vicina ai circoli fedeli alla corona.

Il leader del movimento, il Colonnello Dragutin Dimitrijević detto “Apis”, era stato un responsabile diretto nel colpo di Stato del giugno del 1903 che aveva portato al potere il re Petar Karađorđević.

L’obiettivo della Mano Nera era quello di creare uno Stato indipendente slavo guidato dalla Serbia e quelli croati, assoggettati da tempo.

Il progetto dell’organizzazione terroristica panslavista vedeva un ostacolo nel disegno “trialistico” di cui l’arciduca Francesco Ferdinando era il più autorevole sostenitore, che prevedeva la creazione all’interno dell’impero asburgico di un terzo polo nazionale slavo accanto a quelli tedesco e magiaro.

Quello del 28 giugno 1914, a Sarajevo, fu senza dubbio un attentato fuori dal comune, all’inizio sembrava destinato al fallimento, ma poi le cose andarono diversamente.

A Sarajevo, verso le ore 09:50, il commando di attentatori si era recato all’angolo del corso Voivoda, attendendo il passaggio dell’automobile dell’Arciduca per portare a termine la propria missione di morte.

Alle ore 10:00 in punto, lo studente Gavrilo Princip uscì da una locanda unendosi alla folla e posizionandosi in prima fila, con la mano che teneva in tasca stringeva la pistola con la quale avrebbe dovuto sparare all’Arciduca quando la sua auto fosse passata davanti a lui.

Improvvisamente, in fondo al corso, s’udì un’esplosione e, poco dopo, l’auto con a bordo la coppia reale passò a tutta velocità davanti al luogo dove si trovava appostato Princip, dirigendosi verso il municipio.

Il primo attentatore aveva infatti sbagliato il lancio di una bomba a mano, riuscendo solo a ferire l’aiutante di campo di Francesco Ferdinando e a questo punto la missione di Princip sembrava fallita, si incamminò verso via Re Pietro, nel frattempo però, l’automobile dell’Arciduca, raggiunto il municipio, vi si fermò solo il tempo necessario a Francesco Ferdinando per redarguire il sindaco di Sarajevo per l’accoglienza ricevuta, quindi ripercorse a ritroso la strada fatta in precedenza per andare a recuperare l’aiutante dell’erede al trono, che nel frattempo era stato medicato per le leggere ferite riportate in precedenza.

L’auto percorse l’itinerario a passo d’uomo, a causa della massa di gente che, sfollando, aveva invaso la sede stradale, Princip, che deluso stava ritornando alla taverna, si trovò proprio di fronte alla coppia reale ed esplose due colpi di pistola all’indirizzo delle sue vittime, questa volta colpendole a morte, i proiettili esplosi da Princip colpirono l’arciduca Francesco Ferdinando al collo, mentre la moglie fu ferita allo stomaco, causando la morte dei due in breve tempo.

Princip venne immediatamente tratto in arresto dalle guardie presenti.

Dei sei attentatori, la polizia riuscì ad arrestare soltanto Gavrilo Princip e l’amico Nedeljko Čabrinović, gli altri, a causa della grande folla di persone, non ebbero l’opportunità di entrare in azione e riuscirono a dileguarsi.

Una volta arrestato, Princip tentò di suicidarsi, prima provò a farlo ingerendo del cianuro, la seconda volta sparandosi con la sua pistola ma nessuno dei due tentativi andò a buon fine: nel primo caso vomitò il veleno, come successe anche a Čabrinović, mentre nel secondo caso la pistola venne allontanata prima che potesse sparare un altro colpo.

All’epoca dell’attentato Princip, ancora diciannovenne, era troppo giovane per poter subire la condanna a morte, l’assassino venne pertanto condannato a vent’anni di prigione.

Ma in cella trascorse soltanto quattro anni, vivendo in pessime condizioni nella prigione di Terezín, finché morì di tubercolosi il 28 aprile 1918, all’età di 23 anni.

Ma questa, è un’altra storia.

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Charles Spencer Chaplin – Il monello vagabondo

S:2 – Ep.32

Charles Spencer Chaplin è una persona qualunque.

Charles Spencer Chaplin nacque il 16 aprile 1889 a East Street, nel sobborgo londinese di Walworth.

I suoi genitori erano Charles Chaplin Senior, un attore di varietà di discreto talento e successo ma compromesso dalla dipendenza dall’alcol, e Hannah Harriette Hill, un’attrice conosciuta come Lily Harley, di altrettanto talento, ma minor fortuna.

La coppia aveva già un figlio, Sydney, nato quattro anni prima dalla relazione con un uomo molto più anziano di lei, con cui era fuggita in Africa.

Col piccolo Charlie in fasce e suo padre in tournée in America, Hannah allacciò una relazione con un cantante all’epoca piuttosto in voga, Leo Dryden, dal quale ebbe un figlio, il matrimonio già in crisi subì un colpo definitivo dal tradimento: la separazione avvenne l’anno successivo alla nascita di Charles.

Per le precarie condizioni finanziarie della famiglia, Charles e suo fratello trascorsero due anni fra collegi e istituti per orfani ma il talento innato e la frequentazione dei teatri al seguito della madre forgiarono il piccolo Chaplin.

I primi passi sul palcoscenico li mosse assieme a lei a sette anni quando nel 1896, durante una recita in un teatro di varietà, Hannah, a causa di un improvviso abbassamento di voce, fu fischiata e costretta ad abbandonare il palcoscenico; l’impresario mandò a sostituirla in scena proprio il piccolo Charlie, che ottenne un discreto successo cantando una canzone popolare dell’epoca.

Nel 1900, quando Charlie aveva undici anni, suo fratello Sydney riuscì a fargli ottenere il ruolo comico di un gatto nella pantomima Cinderella, rappresentata all’Hyppodrome di Londra, nella quale recitava anche il famoso clown Marceline.

Nello stesso anno Sydney si imbarcò su una nave come trombettista: Charlie rimase solo a sostenere la madre, la cui salute, sia fisica che mentale, cominciava a manifestare segni di cedimento.

L’anno successivo vide la perdita del padre ma le faticose vicissitudini quotidiane segnarono anche la madre Hannah, obbligandola ad un primo ricovero ospedaliero a seguito di una importante forma depressiva a cui non era probabilmente estranea una condizione di denutrizione.

Nel 1903 Charles ottenne una piccola parte in Jim, the Romance of a Cockney e la sua prima personale recensione favorevole sulla stampa e di lì a poco il primo ruolo fisso in teatro: quello dello strillone Billy in Sherlock Holmes portato a lungo in tournée.

Intanto il fratello era tornato a Londra e aveva cominciato anche lui a lavorare in teatro, questo portò ad una migliore situazione finanziaria, i due riuscirono a far dimettere Hannah dall’ospedale, prendendosene cura, ma per poco tempo: una ricaduta ne determinò un nuovo internamento.

Fra il 1906 e il 1907 Chaplin lavorò ne Il Circo di Casey, misto di varietà e numeri circensi e l’esperienza gli permise di familiarizzare con il mondo del circo e di entrare nella compagnia di Fred Karno, anche grazie al fratello Sydney che già vi lavorava.

Il debutto avvenne nel 1906 con L’incontro di calcio, in cui Charles interpretava la parte di un individuo senza scrupoli che tentava di drogare il portiere avversario prima dell’incontro, in questo spettacolo il fratello maggiore ideava le pantomime e Charlie le doveva interpretare: così Chaplin imparò l’arte di esprimersi senza parole.

Ben presto il giovane Chaplin divenne, insieme a Stanley Jefferson (meglio conosciuto come Stan Laurel o, per noi italiani, Stanlio di Stanlio e Ollio) uno degli attori più apprezzati della compagnia.

Nel 1909 la compagnia di Karno iniziò le tournée all’estero: dapprima a Parigi e, due anni dopo, negli Stati Uniti.

Chaplin era il capocomico in A Night in an English Music Hall, atto unico di pantomima.

L’esperienza americana non fu particolarmente felice; ciononostante la compagnia ritornò oltreoceano anche l’anno successivo e questa volta le cose andarono diversamente: il successo fu grande e Chaplin fu notato dal produttore Mack Sennett, che nel novembre 1913 lo mise sotto contratto per la casa cinematografica Keystone, era il primo contratto di Chaplin per una casa cinematografica.

Nel 1914 Chaplin esordì nell’ancora acerbo mondo del cinema con il cortometraggio Charlot giornalista, in questo film, uscito il 2 febbraio di quell’anno, non indossava ancora i panni del personaggio che lo avrebbe in seguito reso universalmente celebre ed immortale ma i due cortometraggi usciti quasi contemporaneamente, Charlot ingombrante e Charlot all’hotel fece conoscere al pubblico la maschera di Charlot quale anche noi la conosciamo: bombetta, baffetti e bastone da passeggio, pantaloni e scarpe sformati e consunti, benché interpretando il ruolo di un comune ubriaco.

Il personaggio universalmente conosciuto come “Il vagabondo” si definirà pienamente soltanto nell’aprile del 1915, nel pieno della prima guerra mondiale alla quale però, gli Stati Uniti, ancora non vi erano entrati. Il vagabondo.

Per la californiana Keystone, nel solo 1914 Chaplin recitò in 35 cortometraggi, da virtuoso della pantomima, comunicava al pubblico una vasta gamma di emozioni, in particolare col volto, dei cui muscoli facciali padroneggiava appieno il controllo con il suo personaggio anticonvenzionale e a tratti sprezzante e nel dicembre 1915 si trasferì a Chicago, dove lavorò per la Essanay in altre 14 produzioni.

Con cachet adeguati a una popolarità sempre più grande, Chaplin approdò alla Mutual Film, firmando altri 12 corti: Charlot fu di volta in volta cameriere, milionario, muratore e sfaccendato e decise di scritturare la diciannovenne Edna Purviance, facendone la sua primadonna in ben 35 film fra il 1916 e il 1923.

I due vissero anche un intenso e travagliato legame affettivo, che si mantenne in amicizia anche dopo la fine della passione e della carriera artistica di lei, accelerata dagli eccessi dell’alcol.

Chaplin, non ancora trentenne, recitò e diresse quasi cento corti nell’arco di cinque anni.

Chaplin non progettava mai su carta nessuna delle sue gag, né tanto meno sceneggiava l’intreccio delle sue comiche, riusciva a tenere a mente un intero film per poi spiegarlo agli attori sul set man mano che lo girava.

Nel frattempo Gli USA entrarono nel Primo Conflitto Mondiale il 6 aprile del 1917, il loro ingresso in guerra fu provvidenziale per i Paesi della Triplice Intesa in quanto da marzo era venuto loro meno l’appoggio della Russia, a seguito della Rivoluzione interna in atto; la Russia quindi aveva firmato una pace separata a Brest Litvosk, ritirando tutte le proprie truppe.

Gli Stati Uniti apportarono nuove dotazioni belliche, un congruo numero di soldati e soprattutto forze fresche.

Si pensi che i soldati europei di entrambi gli schieramenti erano impegnati in una guerra di logoramento nelle trincee da ormai tre anni.

Nel 1918, Charlie Chaplin decise di mettersi in proprio e passò alla First National, con cui fece 10 film, fino al 1923.

Fu proprio la First National – grazie anche all’interessamento del fratello Sydney, ormai suo procuratore — a corrispondergli il favoloso ingaggio di un milione di dollari, cachet mai guadagnato prima da un attore.

Chaplin fondò la United Artists Corporation e da allora in poi curò da solo ogni fase della sua produzione cinematografica, ma a un periodo professionalmente felice non corrispose una vita privata altrettanto serena.

Nel 1918 aveva infatti sposato la giovane Mildred Harris, che credeva incinta di lui (la gravidanza si rivelò però falsa).

Harris rimase incinta poco dopo il matrimonio e diede alla luce un bambino gravemente malformato, Norman Spencer, che sopravvisse solo tre giorni.

I due divorziarono nel 1920.

Nel 1921 Chaplin lavorò ad una pellicola che lo consacrò definitivamente come star affermata.

Dopo diversi travagli che funestarono le riprese ebbe luogo la prima proiezione ufficiale de Il monello, che Chaplin diresse e interpretò e nel quale fece debuttare il piccolo-grande attore Jackie Coogan.

La febbre dell’oro del 1925 è considerato da molti una delle sue opere meglio riuscite ma la produzione del film successivo, Il circo (nel 1928), fu travagliata a causa dei problemi sorti nella vita privata: in quel periodo divorziò dalla seconda moglie, l’attrice Lita Grey, che aveva sposato nel 1924.

L’affermazione del sonoro (a partire dal 1927) colse in contropiede Chaplin, che aveva pensato e costruito Charlot solo per il cinema muto.

Chaplin decise di andare avanti proponendo il suo personaggio.

Nel 1929, l’assegnazione del suo primo Premio Oscar alla carriera lo consacrò come la prima star a vincere tale premio (rimane il più giovane regista nel XX secolo ad averlo vinto).

Quando nel 1929 Charlie Chaplin cominciò a interessarsi al suo nuovo film, il sonoro era diventato ormai pressoché irrinunciabile per qualsiasi regista dell’epoca e Sydney, fratello e manager di Charlot, non esitò a proporgli l’idea di una pellicola sonorizzata, ma Charlie era molto scettico rispetto alla nuova invenzione e tentò in tutti i modi di restare alla pantomima.

Chaplin girò nel 1931 Luci della città, film muto accompagnato dalla musica.

Fu il primo film di Chaplin con sonoro e musiche sincronizzate.

Le sue simpatie politiche non furono da lui mai rivelate esplicitamente, si ritiene fosse un progressista, ma non socialista o comunista, oltre che (cosa da lui invece rivelata) un pacifista e benché vivesse negli Stati Uniti da molti anni e vi pagasse le tasse, Chaplin non chiese mai la cittadinanza statunitense.

Charlie Chaplin morì in Svizzera, la notte di Natale del 1977, all’età di 88 anni.

Quel giorno, a pomeriggio inoltrato, Chaplin chiese alla sua quarta moglie Oona di spalancare le porte della camera affinché dalla hall sottostante potessero salire le note dei Christmas carol, come da rituale che si ripeteva da oltre vent’anni il 24 dicembre nella loro residenza.

Quella stessa notte, intorno alle 4, morì nel sonno.

Ma questa, è un’altra storia.

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Augusto Turati – La befana fascista

S:2 – Ep.31

Augusto Turati è una persona qualunque.

Nato a Parma il 25 agosto 1888 da famiglia con forti tradizioni anticlericali e garibaldine, si trasferì giovanissimo a Brescia, intraprendendo la carriera giornalistica quale redattore a La Provincia di Brescia, giornale di ispirazione liberal-democratica e nel contempo iniziò gli studi in legge, portati avanti in maniera discontinua.

Attivo interventista, prese parte alla prima guerra mondiale con il grado di capitano e venne decorato nel 1916 con una medaglia d’argento sulle alture di Santa Caterina e una medaglia di bronzo sull’altopiano dei sette comuni e, nel 1918, con una Croce al merito di guerra.

Al termine del conflitto, congedato dall’esercito nell’estate del 1919, riprese a lavorare per “La Provincia di Brescia” in qualità di caporedattore.

Nel 1920 aderì ai Fasci di combattimento e, l’anno successivo, al Partito Nazionale Fascista.

Nell’ambito dell’organizzazione del partito si dedicò all’attività sindacale e divenne poi segretario della federazione bresciana.

In seguito alla crisi politica determinata dal delitto Matteotti e allo scopo di fronteggiare il “rassismo” che ne era stato il principale responsabile, nel 1926 Mussolini incaricò Turati di sostituire Roberto Farinacci come segretario nazionale del PNF, affidandogli il difficile compito di rendere maggiormente disciplinato il partito, epurando gli elementi più estremisti.

Per chi non li avesse visti, nello speciale di 5 puntate del nostro podcast dedicate agli attentati al Presidente del Consiglio del 1925 e 1926, Benito Mussolini, Farinacci era uno dei principali sospettati all’organizzazione di, se non tutti, almeno dell’ultimo attentato, quello che portò al linciaggio del piccolo Anteo Zamboni prima che il Duce “spostasse” parecchie cariche e oscurasse Farinacci, sostituito alla segreteria del partito da, per l’appunto, Augusto Turati.

Turati svolse la sua opera moderatrice e moralizzatrice nel partito con estremo rigore e grande determinazione, non sempre riuscendo nell’intento, ma inimicandosi una folta schiera di gerarchi nazionali e locali, primi fra tutti Farinacci, ma anche Costanzo Ciano, De Vecchi, Giunta, Balbo (altro nome uscito nell’ultimo attentato) e Ricci, che dalle direttive di Turati erano stati fortemente colpiti negli interessi politici ed economici.

Chi temeva Turati erano appunto i vari gerarchi, preoccupati che il segretario del partito potesse rafforzarsi troppo nella posizione di vice-duce, così da succedere a Mussolini in caso di una sua prematura scomparsa, prematura scomparsa che, dopo aver subito 4 attentati in 11 mesi, non era da escludere così facilmente.

Ma Turati fu anche l’ideatore, allo scopo di dare visibilità sul territorio ai fasci femminili e all’opera nazionale del dopolavoro, della “Befana fascista”, ordinando alle Federazioni provinciali del Partito Nazionale Fascista di sollecitare commercianti, industriali e agricoltori a donazioni in occasione di tale festa, la cui gestione sarebbe stata curata dalle organizzazioni femminili e giovanili fasciste.

In verità, non fu una novità assoluta ma il recepimento e la pianificazione su scala nazionale di iniziative spontanee in precedenza assunte da molte sezioni del PNF, in Italia e all’estero, come, ad esempio, fu la “Befana fascista ante litteram” organizzata a Buenos Aires dalla sezione argentina dell’Associazione lavoratori fascisti all’estero, che il 6 gennaio 1927 vide una grande partecipazione di emigrati italiani, con la distribuzione di 1 500 doni.

Ma dove nasce “la befana”?

L’origine è forse connessa a un insieme di riti propiziatori pagani, risalenti al X-VI secolo a.C., in merito ai cicli stagionali legati all’agricoltura, ovvero relativi al raccolto dell’anno trascorso, ormai pronto per rinascere come anno nuovo.

La dodicesima notte dopo il solstizio invernale, si celebrava la morte e la rinascita della natura attraverso Madre Natura, i Romani credevano che in queste dodici notti delle figure femminili volassero sui campi coltivati, per propiziare la fertilità dei futuri raccolti, da cui il mito della figura “volante”.

Secondo alcuni, tale figura femminile fu dapprima identificata in Diana, la dea lunare non solo legata alla cacciagione, ma anche alla vegetazione, mentre secondo altri fu associata a una divinità minore chiamata Sàtia (dea della sazietà), oppure Abùndia (dea dell’abbondanza).

Già a partire dal IV secolo d.C. la Chiesa di Roma cominciò a ripudiare e in taluni casi a condannare esplicitamente tutti i riti e le credenze pagane, definendoli un frutto di influenze sataniche, queste sovrapposizioni diedero origine a molte personificazioni, che sfociarono a partire dal Basso Medioevo.

La scopa si pensa che sia una rappresentazione dei roghi in cui il manico rappresentava il palo in cui la condannata veniva legata e la saggina rappresentava la catasta di legna da ardere, ma la scopa volante, era anche antico simbolo da rappresentazione della purificazione delle case (e delle anime), in previsione della rinascita della stagione.

Condannata quindi dalla Chiesa, l’antica figura pagana femminile fu accettata gradualmente nel Cattolicesimo, come una sorta di dualismo tra il bene e il male e già nel periodo del teologo Epifanio di Salamina, la stessa ricorrenza dell’Epifania fu proposta alla data della dodicesima notte dopo il Natale, assorbendo così l’antica simbologia numerica pagana.

Sulle basi di queste tradizioni e della riluttanza alla sopportazione di una parte del cattolicesimo di Augusto e ricordandoci che discendeva da una famiglia anticlericale, Turati non approvava le leghe cattoliche pretendendo la rimozione dell’agronomo Antonio Bianchi – ideatore del “lodo di Soresina”- che metteva in discussione la dottrina sindacale fascista in materia di patti agrari, causando un notevole imbarazzo anche a Mussolini che, in quei mesi, governava con l’appoggio dei popolari, Turati iniziò la suo opera organizzativa della prima Befana ufficiale che divenne la Befana fascista.

Il 6 gennaio 1928 ebbe un successo superiore ad ogni aspettativa che ne decretò la riproposizione annuale, in un continuo crescendo di partecipazione e già nel 1930 i pacchi dono distribuiti superarono i 600 000, nel 1932 furono 1 243 351, ciò presupponeva una macchina organizzativa enorme e capillare, in grado di raccogliere, suddividere, confezionare e distribuire le donazioni.

Ma qualche anno prima, nell’ottobre del 1929, Farinacci diede inizio a una pesante campagna scandalistica contro Turati, forse per vendicarsi del posto “rubato”, basato sulle equivoche confidenze fattegli dalla maîtresse Paola Marcellino, che gestiva la lussuosa casa d’appuntamenti della quale erano entrambi clienti, nei primi mesi del 1930 Turati inviò le proprie dimissioni a Mussolini, che le respinse.

Le voci che Farinacci diffuse erano legate ai gusti sessuali di Turati, secondo ciò che venne diffuso un omosessuale, situazione che di certo non piaceva, vero o falso che fosse, al Partito Fascista Nazionale e, dopo un intero anno di campagna scandalistica, Turati rassegnò nuovamente le dimissioni, questa volta accettate, tornando così al giornalismo, prima come inviato del Corriere della Sera e poi come direttore de La Stampa.

L’abbandono del potere lo espose ancor più alle azioni degli avversari, che non si placarono e, anzi, vennero rafforzate dagli ex collaboratori come Achille Starace, uno dei quattro vicesegretari del PNF cui Turati non aveva mai risparmiato critiche per la sua pochezza, che divenne un suo implacabile persecutore.

Starace e Farinacci continuarono il loro operato denigratorio e ottennero risultati, Turati fu radiato dal partito e, nel 1933, venne confinato a Rodi, poi, dopo un breve soggiorno in Etiopia, rientrò in patria nel 1938.

A partire dal 1934, dopo la caduta in disgrazia di Turati, la “Befana fascista” mutò la denominazione in “Befana del duce” (o “Natale del duce” per le zone in cui era tradizione distribuire i doni ai bambini in tale data), allo scopo di utilizzare la ricorrenza per avallare il culto della personalità di Benito Mussolini, avviata dal nuovo segretario del PNF, Achille Starace.

Nonostante la strenua difesa in suo favore esercitata da Giovanni Agnelli (nonno e omonimo del più contemporaneo patron della Fiat) e Aldo Borelli, un giornalista e direttore molto affermato, fatte direttamente su Mussolini, Turati fu destituito dalla direzione de La Stampa, arrestato e rinchiuso nel manicomio di sant’Agnese a Roma, per poi essere trasferito in una casa di cura a Ramiola, in provincia di Parma.

Per chi non lo sapesse e per quanto fortunatamente queste cose siano inimmaginabili ai giorni nostri, il fascismo cercò sempre di reprimere le manifestazioni più eclatanti di omosessualità, e per poter mostrare che gli italiani fossero, in realtà, immuni da questo “vizio immondo” e antipatriottico, la patologizzazione dell’omosessualità, già ben inserita nella scienza psichiatrica nazionale in quegli anni, serviva anche a questo scopo al regime.

Prevenire o punire, a seconda dei casi, la pederastia, trattata più o meno come una vera e propria deficienza o “pazzia morale”, veniva fatta anche attraverso l’internamento in manicomio, era pratica molto usata non solo in Italia per la verità, ma questa sorte, nel Bel Paese, toccò anche Augusto Turati.

Quando ne uscì, abbandonò l’attività politica e si dedicò alla professione di consulente legale.

Nonostante si fosse manifestato contrario all’ingresso dell’Italia nella seconda guerra mondiale e al costituirsi della Repubblica Sociale Italiana, e domandiamoci il perché, nel dopoguerra venne processato e condannato per il suo trascorso nel Partito Nazionale Fascista di cui fu proprio il segretario, fu poi amnistiato nel 1946.

Augusto Turai morì a Roma il 27 agosto 1955, 9 anni dopo essere uscito dal carcere per essere stato un fascista.

La befana continuò ad esistere anche durante gli anni della seconda guerra mondiale, riprendendo la denominazione di “Befana fascista” dopo l’instaurazione della Repubblica Sociale Italiana.

Ma questa, è un’altra storia.

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Silvestro I° – La notte di capodanno

S:1 – Ep.30

Silvestro I° è una persona qualunque.

Silvestro I° è stato il 33º vescovo di Roma e papa della Chiesa cattolica dal 314 fino alla sua morte che è avvenuta il 31 dicembre del 335 a Roma e dalla quale prese il nome anche la notte di capodanno chiamata anche “notte di San Silvestro”.

La fine dell’anno porta a bilanci e come poteva mancare il nostro?

Abbiamo raccontato le storie di 34 persone (e animali) qualunque quest’anno e ci siamo chiesti, giunti alla fine del nostro primo anno di podcast, dov’erano le persone qualunque nella notte di capodanno di 110 anni fa?

Luisa Zeni, praticamente l’unica agente segreto donna del regio esercito, aveva passato il confine e si stava unendo al gruppo di irredentisti trentini che, poco prima dello scoppiare della prima guerra mondiale, si diressero a Milano per evitare di entrare in guerra con l’esercito austriaco, si sentivano italiani e volevano aiutare la loro nazione.

Raffaele Paolucci si era congedato da poco dall’esercito ed era in attesa di occupazione mentre Raffaele Rossetti nell’esercito c’era ancora, imbarcato sulla nave officina Vulcano, dovevano passare ancora 4 anni prima di conoscersi e portare a termine l’impresa di Pola e l’affondamento della Viribus Unitis grazie alla “mignatta” portata a nuoto nel porto nemico di Pola.

Andrea Giuliani, padre Reginaldo per intenderci, insegnava teologia e ancora non conosceva gli arditi di cui, poi, ne divenne la guida spirituale seguendoli costantemente in prima linea, attraversando più volte il Piave assieme a loro e incitandoli alla battaglia, sostenendoli nei momenti più difficili della grande guerra.

Antonio Cantore, il primo ufficiale italiano abbattuto in circostanze misteriose durante la prima guerra mondiale, era da poco tornato dalla Libia e fu posto al comando della brigata Pinerolo, il colpo che ricevette in mezzo alla fronte doveva ancora essere caricato.

Harry Houdini collaborava già come spia con l’ufficio di Scotland Yard diretto da Melville alla ricerca di spie tedesche, avevano da poco smascherato il barbiere di Karl Gustav Ernst come il centro di una rete di spie germaniche in una nazione già coinvolta nel primo conflitto mondiale.

Cosma Manera, il carabiniere padre degli irridenti, colui che girò il mondo alla fine della prima guerra mondiale per recuperare quegli uomini che nessuno più voleva, uomini che avevano combattuto e perso la prima guerra come austriaci e ungheresi e che poi divennero acquisiti italiani, a capodanno 1914 si trovava in Russia per la sua prima missione alla Corte Imperiale dello zar, gli irridenti non esistevano ancora.

Cher Ami, il piccione viaggiatore americano decorato al termine del primo conflitto, a capodanno 1914 beccava tranquilla all’interno della sua gabbietta, gli stati uniti non erano ancora entrati nel conflitto e la sua vita era semplice, qualche volo di addestramento e del becchime come premio.

Henry Tandey, colui che NON sparò (forse) ad Adolf Hithler quando ne ebbe l’occasione nel 1918, aveva appena preso parte alla prima battaglia di Ypres dove fu ferito a una gamba durante la battaglia della Somme ed era ricoverato per le cure del caso.

Albert Niemann era morto da oltre 50 anni ma la sua scoperta chimica, il fosgene, il gas mostarda che avrebbe poi intossicato 1.176.500 militari durante la prima guerra mondiale e ne avrebbe uccisi 85.000, era in produzione, per essere utilizzata poco dopo sui vari fronti.

Tito Zaniboni, il primo attentatore alla vita del presidente del consiglio del 1925, Benito Mussolini, a capodanno 1914 aveva aderito al Partito Socialista Italiano, nel quale militò nella corrente riformista, ed era consigliere provinciale di Volta Mantovana.

Violet Gibson, autrice del secondo attentato al Duce, era stata presentata come debuttante a corte durante il regno della regina Vittoria ma ne aveva rifiutato gli ideali, la religione e lo stile di vita diventando pacifista e venendo schedata da Scotland Yard.

Gino Lucetti, il terzo attentatore alla vita di Mussolini, il 31 dicembre 1914 lavorava ancora nelle terre di Avenza, di proprietà della madre Adele Crudeli, e militava nell’organizzazione giovanile del Partito Repubblicano.

Anteo Zamboni, il presunto ultimo attentatore o colui che fu linciato dalle camicie nere definendolo tale, l’ultimo giorno dell’anno del 1914 aveva solamente 3 anni e pochi altri gli lasciarono prima di ucciderlo barbaramente.

Anthony Sayer era deceduto qualche secolo prima di quel capodanno che portò poi l’Italia nel primo conflitto mondiale ma la sua creazione aveva già tessuto parecchi legami nel mondo con il nome con cui viene chiamata ancora oggi: massoneria.

Aurelio Baruzzi lavorava in una banca locale in provincia di Ravenna ma non sopportava più il suo lavoro e così due mesi più tardi si arruolò volontario nel Regio esercito come allievo sergente del 41º Reggimento fanteria, col quale entrò nella prima guerra mondiale il seguente 24 maggio e trasformandolo in un eroe.

Ernest Hemingway aveva 15 anni ed era iscritto alla “Municipal High School” dove ebbe la fortuna di incontrare due insegnanti che, avendo notato l’attitudine del ragazzo per la letteratura, lo incoraggiarono già ad iniziare a scrivere.

Remo Pontecorvo, il creatore dei caimani del Piave, era già nell’esercito ed era in missione in Libia ma nell’estate del 1914 le condizioni di sicurezza nei territori della Tripolitania si aggravarono rendendo difficoltosi i rifornimenti con la costa, mentre lo scoppio della prima guerra mondiale non consentì di proseguire in ulteriori azioni belliche, le riserve vennero così dirottate sul fronte aperto contro l’Austria-Ungheria.

Walt Disney aveva 13 anni e stava ancora frequentando la scuola, il resto del tempo lo impiegava lavorarono nel tempo libero nell’impresa paterna di distribuzione di giornali per contribuire alle spese della famiglia.

Margaretha Zelle, si faceva già chiamare Mata Hari e l’ultimo giorno dell’anno del 1914 si trovava a Parigi e si esibiva in case esclusive di aristocratici e finanzieri e in spettacoli nei locali prestigiosi, apparendo vestita con sottili veli traslucidi dei quali si spogliava uno dopo l’altro durante l’esibizione, ma non era ancora una spia doppiogiochista.

Emmy, Oscar e Blackie, i gatti di bordo di varie navi degli anni antecedenti e postumi la prima guerra mondiale, non si sa dove fossero, Oscar e Blackie probabilmente dovevano ancora nascere ed Emmy era scampata da qualche mese all’affondamento della RMS Empress of Ireland.

Giuseppe Aonzo, uno di quegli eroi che affondarono la Szent István nell’impresa di Premuda nel 1918, a capodanno di 4 anni prima lavorava nella marina mercantile civile e, grazie alla sua competenza e passione, dedizione e caparbietà, divenne capitano di lungo corso.

Maria Plozner Mentil stava trascorrendo l’ultima notte dell’anno assieme al marito Giuseppe e i suoi 4 figli a Timau e non sapeva che sarebbe diventata una portatrice carnica l’anno successivo e, soprattutto, non sapeva che sarebbe stata colpita da un cecchino austroungarico 14 mesi più tardi.

Henri Landru, il serial killer francese, doveva ancora iniziare ad uccidere ma aveva già iniziato a truffare e si trovava in carcere proprio per quello, fu lì che gli venne l’idea di agganciare donne in cerca di marito, sposarle ed ucciderle per ereditarne gli averi e facendosi attribuire il soprannome di Barbalù.

Bela Kiss, il serial killer ungherese invece ad uccidere aveva già iniziato da un po’ e anche parecchio, aveva già fatto a pezzi e messo dentro a dei bidoni la moglie e l’amante e parecchie donne della zona, la polizia non l’aveva ancora identificato ma lui era stato richiamato alle armi e si trovava al fronte da dove fece poi perdere le sue tracce.

Vasilij Komarov, l’omicida seriale russo, il lupo di Mosca, doveva ancora iniziare la sua lunga serie di omicidi, era già un alcolizzato, era uscito dal carcere dopo aver scontato la pena per rapina ad un magazzino ed aveva perso la prima moglie di colera ma si era risposato.

Carl Großmann, Fritz Haarmann e Karl Denke, i tre serial killer tedeschi soprannominati “i macellai” per come riducevano le proprie vittime, si trovavano nella Germania già impiegata nella prima guerra mondiale, ma non sotto le armi.

Großmann, dopo essere uscito dal carcere l’anno prima per crimini sessuali, si trasferì in un piccolo appartamento in un povero e malfamato quartiere di Berlino dove iniziò a portare a casa prostitute per poi ucciderle, farle a pezzi e cucinarle, utilizzando poi la carne per farcire panini da vendere alla stazione.

Forse stava facendo proprio questo il 31 dicembre 1914 mentre Haarmann lottava per tenere nascosto l’istinto dell’omicida sessuale seriale che, però, qualche anno dopo uscì comunque iniziando ad uccidere prostituti mordendoli al collo durante l’atto.

Denke in quel periodo era ancora soprannominato “padre Denke”, non era un prelato ma un uomo mosso da carità cristiana che accoglieva senza tetto e li accudiva nella propria casa.

oi iniziò ad ucciderli e farli a pezzi.

Luigi Rizzo a capodanno era sottotenente di vascello di complemento della riserva navale.

Dovette aspettare l’inizio della prima guerra mondiale per portare a termine una lunga serie di incursioni a bordo dei Mas tra cui ci fu anche la d’annunziana beffa di Buccari.

Andrea Lostia aveva già fatto tanto il 31 dicembre 1914, aveva guidato la rivolta dei sardi contro il proprio reggimento, era stato carcerato e liberato per questo e aveva già insinuato nella mente di alcuni ufficiali italiani l’idea di creare un intero reggimento di sardi che diventò poi, l’anno successivo, la brigata Sassari.

Bruce Bairnsfather era al fronte sulle fiandre ed era passata solamente una settimana dall’aver assistito all’evento pacifista non organizzato che coinvolse 100.000 militari dei vari eserciti che ancora oggi viene ricordata come “la tregua di natale”.

Buon anno a tutti i nostri fedeli appassionati e se volete ancora ascoltare storie di pagliacci, attori, soldati e politici del periodo pre e post bellico della grande guerra ci rivediamo martedì prossimo dove vi racconterò di Turati e della befana fascista nella seconda stagione di “una persona qualunque”.

Ma questa è un’altra storia.

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Bruce Bairnfather – La tregua di Natale

S:1 – Ep.29

Bruce Bairnsfather è una persona qualunque.

Bruce nacque a Murree, nell’India britannica (ora Pakistan ) dal maggiore Thomas Henry Bairnsfather dell’Indian Staff Corps, e (Amelia) Jane Eliza, figlia di Edward Every-Clayton e nipote di Sir Henry Every, 9° Baronetto, i suoi genitori erano cugini di secondo grado, entrambi pronipoti di Sir Edward Every, 8° Baronetto.

Bruce trascorse i primi anni della sua vita in India, ma fu portato in Inghilterra nel 1895 per essere istruito allo United Services College e poi alla Stratford-upon-Avon.

Inizialmente intenzionato a intraprendere la carriera militare, come il padre, non superò gli esami di ammissione al Royal Military College e nemmeno alla Royal Military Academy, quindi si arruolò nel Cheshire Regiment.

L’esperienza non durò molto, si dimise nel 1907 per diventare un artista, studiando alla John Hassall School of Art.

Senza successo all’inizio, lavorò come ingegnere elettrico e ricoprendo questo ruolo per l’ Old Memorial Theatre lo portò a conoscere Marie Corelli che lo presentò a Thomas Lipton, un legame che lo portò a commissioni per disegnare schizzi pubblicitari per il tè Lipton e le sigarette Player’s, la senape Keen’s e le pillole Beecham’s.

Nel 1914, allo scoppio della prima guerra mondiale, Bruce fu arruolato nel Royal Warwickshire Regiment come sottotenente e prestò servizio in un’unità di mitragliatrici in Francia.

Bruce fu uno dei testimoni di un evento che, per gli appassionati del genere, ancora oggi viene ricordata come la “tregua di natale”.

Il 3 agosto 1914 la Germania dichiarò guerra alla Francia, iniziando le operazioni sul fronte occidentale: seguendo i dettami del cosiddetto “Piano Schlieffen”, le truppe tedesche invasero il neutrale Belgio al fine di aggirare le difese francesi poste lungo il confine tra le due nazioni e puntare su Parigi.

Dopo alcuni iniziali successi, l’azione dei tedeschi venne fermata nel corso della prima battaglia della Marna ad opera delle truppe francesi e del corpo di spedizione dei britannici da poco sopraggiunto, in cui c’era anche Bruce Bairnsfather, ma la seguente controffensiva degli anglo-francesi venne fermata nel corso dell’inconcludente prima battaglia dell’Aisne.

Nei mesi successivi i due contendenti cercarono di aggirare reciprocamente il fianco settentrionale dell’avversario dando luogo alla serie di eventi nota come la “corsa al mare”: i combattimenti si estesero progressivamente verso nord, nella regione belga delle Fiandre, mentre lungo la linea del fronte presero a comparire i primi sistemi di trincee.

Per la fine di novembre del 1914, dopo la conclusione della prima battaglia di Ypres, la situazione giunse a un punto di stallo: la guerra di movimento cessò e il fronte si stabilizzò lungo una linea continua di trincee estesa dal Mare del Nord alla Svizzera, dietro cui i due contendenti si ammassarono a difesa.

Con l’approssimarsi del Natale del 1914, il primo Natale della prima guerra mondiale, furono intraprese diverse iniziative a favore della pace: una Open Christmas Letter fu pubblicamente sottoscritta da un gruppo di 101 suffragette britanniche e indirizzata alle “donne di Germania e Austria” come messaggio di pace tra le opposte fazioni.

Il 7 dicembre 1914, invece, il Papa Benedetto XV avanzò la proposta di sottoscrivere una tregua natalizia tra i governi belligeranti, chiedendo che “i cannoni possano tacere almeno nella notte in cui gli angeli cantano”, richiesta che tuttavia fu ufficialmente respinta.

Ma benché nessun accordo ufficiale tra i belligeranti fosse stato pattuito, nel corso del Natale del 1914 circa 100.000 soldati francesi, britannici e tedeschi furono coinvolti in un certo numero di tregue spontanee lungo i rispettivi settori di fronte nelle Fiandre.

I primi episodi ebbero luogo durante la notte della vigilia, quando soldati tedeschi iniziarono a porre decorazioni natalizie nelle loro trincee nella zona di Ypres e dove il nostro Bruce descrisse l’episodio.

I tedeschi presero a mettere candele sul bordo delle loro trincee e su alcuni alberi nelle vicinanze, iniziando poi a cantare alcune tipiche canzoni natalizie; dall’altro lato del fronte, i britannici risposero iniziando anche loro a cantare, e dopo poco tempo soldati dell’uno e dell’altro schieramento presero ad attraversare la terra di nessuno per scambiare con la controparte piccoli doni, come cibo, tabacco, alcolici e souvenir quali bottoni delle divise e berretti.

In molti casi gli episodi di fraternizzazione proseguirono anche la mattina di Natale: una forte gelata indurì il terreno e disperse l’odore di putrefazione dei cadaveri insepolti, e diversi gruppi di soldati dei due schieramenti si incontrarono nella terra di nessuno per scambiarsi doni e scattare foto ricordo; il livello di fraternizzazione fu tale che vennero persino organizzate improvvisate partite di calcio tra i militari tedeschi e quelli britannici.

La tregua fornì poi l’occasione per recuperare i caduti rimasti abbandonati nella terra di nessuno e dare loro più degna sepoltura; durante questa fase, furono organizzate anche funzioni religiose comuni per tutti i caduti.

Nei settori del fronte interessati dalla tregua, l’artiglieria rimase muta e non si verificarono combattimenti su vasta scala per tutto il periodo natalizio; ma non tutti i soldati condividevano la “tregua di natale”, in alcuni casi i soldati che si avvicinavano alle trincee nemiche furono comunque presi a fucilate dagli avversari.

Nella maggior parte dei settori interessati la tregua durò solo per il giorno di Natale, ma in alcuni casi si prolungò fino alla notte di Capodanno.

Bruce Bairnsfather, testimone degli avvenimenti, scrisse:

«Non dimenticherò quello strano e unico giorno di Natale per niente al mondo… Notai un ufficiale tedesco, una specie di tenente credo, ed essendo io un po’ collezionista gli dissi che avevo perso la testa per alcuni dei suoi bottoni della divisa… Presi la mia tronchesina e, con pochi abili colpi, tagliai un paio dei suoi bottoni e me li misi in tasca. Poi gli diedi due dei miei bottoni in cambio… Da ultimo vidi uno dei miei mitraglieri, che nella vita civile era una sorta di barbiere amatoriale, intento a tagliare i capelli innaturalmente lunghi di un docile “crucco”, che rimase pazientemente inginocchiato a terra mentre la macchinetta si insinuava dietro il suo collo.»

Gli eventi della tregua del 1914 non furono riportati dai media per giorni, in una sorta di autocensura non ufficiale rotta infine il 31 dicembre 1914 dal The New York Times statunitense, paese in quel momento ancora neutrale.

I giornali britannici si accodarono nei primi giorni di gennaio del 1915, riportando numerosi resoconti in prima persona degli stessi soldati presi dalle lettere inviate alle famiglie, la copertura dell’evento in Germania fu più smorzata, con molti giornali che espressero critiche nei confronti dei soldati partecipanti alla tregua, e nessuna immagine dell’evento fu pubblicata.

In Francia, la forte censura assicurò che l’unico resoconto degli eventi venisse solo dai racconti dei soldati al fronte o da quelli feriti negli ospedali: a queste crescenti voci i giornali risposero ristampando un precedente avviso del governo secondo cui fraternizzare con il nemico costituiva tradimento; solo all’inizio di gennaio del 1915 furono pubblicate dichiarazioni ufficiali sulla tregua di Natale, tendenti più che altro a minimizzare la portata e la diffusione degli eventi.

In Italia, dove l’opinione pubblica era impegnata nel dibattito tra neutralità e intervento, i giornali nazionali parlarono della tregua in brevi trafiletti, spesso riportando gli articoli apparsi sui giornali americani e inglesi.

Bruce continuò il suo lavoro di militare britannico regolarmente quando in primavera del 1915 fu ricoverato in ospedale per shock da bombardamento e danni all’udito subiti durante la seconda battaglia di Ypres.

Inviato al quartier generale della 34a divisione a Salisbury Plain, sviluppò la sua serie umoristica per Bystander sulla vita nelle trincee, con protagonista “Old Bill”, un soldato brontolone con i caratteristici baffi da tricheco e passamontagna.

La più ricordata di queste, mostra Bill con un altro soldato in una buca fangosa con i proiettili che fischiavano tutt’intorno.

Molte delle sue illustrazioni di questo periodo furono raccolti in Fragments From France del 1914 e nell’autobiografico Bullets & Billets del 1916.

Nonostante l’immensa popolarità di Bruce tra le truppe e un massiccio aumento delle vendite per Bystander, inizialmente, ci furono obiezioni alla “volgare caricatura” di Old Bill, tuttavia, il successo nel sollevare il morale portò alla promozione di Bairnsfather al grado di capitano e al ricevimento di un incarico dal War Office per disegnare vignette simili anche per altre forze alleate.

La grande guerra giunse al termine e 3 anni più tardi, nel 1921, Bruce sposò Cecilia Agnes Scott.

Era la moglie divorziata dell’eminente golfista Michael Scott .

“Old Bill” e Bruce stesso continuarono ad essere popolari tra le due guerre, molti ufficiali di polizia dell’epoca avevano baffi simili a quelli del personaggio creato da Bruce e questo potrebbe aver portato la polizia britannica proprio ad essere soprannominata, in quel periodo, The Old Bill.

Quando scoppiò la seconda guerra mondiale, Bairnsfather continuò il lavoro di Old Bill, ma non gli fu chiesto di aiutare con il suo lavoro lo sforzo bellico britannico, come invece avvenne con Walt Disney negli Stati Uniti, tuttavia, divenne il fumettista ufficiale delle forze americane in Europa, contribuendo a Stars and Stripes e Yank.

Bruce Bairnsfather morì nel 1959 all’età di 72 anni per complicazioni dovute a un cancro alla vescica, a Worcester.

Il suo necrologio sul Times, che parlava della sua carriera, giunse alla conclusione che era “fortunato nel possedere un talento… che si adattava quasi al punto di genio ad un momento particolare ed a una serie particolare di circostanze; ma era stato sfortunato nel non essere mai stato in grado di adattare il suo talento a nuovi tempi e alle nuove circostanze”.

Old Bill era nato con la prima guerra mondiale, ma morì, metaforicamente parlando, quando terminò la seconda.

Ma questa, è un’altra storia.

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Andrea Lostia – Dimonios

S:1 – Ep.28

Andrea Lostia è una persona qualunque.

Purtroppo non abbiamo immagini specifiche di Andrea ma vogliamo comunque raccontarvi la sua storia, la storia di una persona qualunque che però portò alla nascita della famosa “brigata Sassari”.

Gli archivi dell’Esercito ne documentano la costituzione il primo marzo del 1915 con due reggimenti, uno a Sinnai e l’altro a Tempio ma non dicono nulla sul perché e sul come lo Stato maggiore dell’esercito del regno d’Italia decise di creare questa unità, composta solo da sardi, che diventò leggenda nella Grande guerra.

Fu anche un importante laboratorio politico perché fu il deposito rivoluzionario della Sardegna del dopoguerra.

Nelle trincee tra sofferenza, paura e la furia dell’odore acre della morte, maturò infatti tra contadini e pastori in divisa, e i loro ufficiali, una coscienza nuova della propria identità regionale, anzi nazional regionale.

Andrea Lostia nasce a Orotelli nel 1894, figlio di Giovanni Battista e di Antonietta Marteddu.

Era un uomo molto energico e deciso, qualità diffuse tra i sardi, fu chiamato alle armi nel 1912, all’età di 18 anni, e destinato al reggimento di artiglieria Fortezza da Costa a Genova, dove si distinse fin da recluta quando riuscì a far sparare il gigantesco cannone da 420 millimetri, allora in fase di collaudo e per questo ottenne come riconoscimento una medaglia.

Ma Andrea era anche un uomo molto riservato e avaro di parole, anche queste, solitamente qualità genetiche sarde.

All’origine della Brigata Sassari c’è la storia poco conosciuta di un gruppo di artiglieri sardi che, nel 1914, si ribellò alla boria e agli abusi dei commilitoni continentali, non sempre la storia è quella raccontata nei libri o registrata negli archivi.

A volte rimangono nell’ombra uomini e donne qualunque che, con le loro vite e le loro scelte, hanno determinato eventi che hanno poi lasciato un segno, questi protagonisti della storia, spesso senza nome e senza volto, sono destinati a essere inghiottiti dall’oblio.

Ma ci sono rari casi in cui ricordi remoti o testimonianze apparentemente insignificanti possono, dopo moltissimi anni, riaffiorare dalle nebbie del tempo e ricomporsi, come nel caso di Andrea Lostia.

In quel 1914 cominciavano a soffiare i primi venti di guerra, il conflitto era imminente e nell’Esercito tutti i congedi erano stati sospesi.

Nei reparti si respirava un’aria pesante e la tensione era altissima, questo anche nel reggimento Fortezza da Costa di Genova.

Si aggiunga che i sardi, isolani semi isolati, non venivano ben visti dai “continentali”, erano passati solamente 67 anni da quel 29 novembre 1847, dove, con la “fusione perfetta” e la rinuncia dei sardi alla loro autonomia statuale, il Regno di Sardegna si fuse con gli Stati di terraferma posseduti dai Savoia, comprendenti il Principato di Piemonte, il Ducato di Savoia, la Contea di Nizza, gli ex feudi imperiali dell’Appennino Ligure e l’ex Repubblica di Genova con l’isola di Capraia.

Non tutti i sardi avevano dimenticato il loro Regno e non tutti i sardi condividevano la scelta dell’unione, 67 anni sono pochi per dimenticare le proprie origini e questo, i “continentali” lo sentivano, e i sardi a volte, lo pativano.

Succedeva spesso, come testimonianze di chi c’era confermano, che quando si trovavano in fila per il rancio o per lavarsi, i sardi venivamo ributtati indietro a gomitate perché i continentali si credevano superiori ed erano molto più numerosi di loro.

“Ma dal giorno che gli abbiamo dato quella batosta con Andrea, le cose sono cambiate e noi sardi passavamo avanti ai continentali nelle file», riporta Borianu Sanna di Bitti, ex commilitone di Andrea Lostia, parlando di ciò che probabilmente portò alla prima presa di coscienza della creazione della brigata Sassari parlando di quella tremenda rissa che poi finì condizionando la storia.

Andrea Lostia era diventato attendente del capitano e una sera, tornando in caserma, trovò i suoi amici sardi silenziosi e avviliti.

Uno di loro gli disse: “i continentali si credono superiori e sono molto più numerosi di noi, non vedi Andrea che ci fanno filare come bestie, e non senti quel romano che a pugni serrati e a braccia alzate urla che per stendere lui ci vuole tutta la Sardegna”?

La risposta di Lostia risuonò come una frustata: “e voi cosa state aspettando a saltargli addosso con coraggio e con determinazione senza temerli, poi gli facciamo vedere che non ci vuole tutta la Sardegna per dargli una lezione e farli scappare!”».

Alle discriminazioni ricevute e alla tensione crescente pre bellica, quelle parole furono la scintilla che scatenò una rissa cruenta e furiosa nella quale un pugno di sardi diede una severa lezione a tutto il reggimento di artiglieria Fortezza da Costa, un sergente maggiore finì addirittura in ospedale per una coltellata in pancia.

Le autorità militari pensarono subito a una rivolta contro lo Stato, sospettando infiltrazioni angioine repubblicane tra i sardi e Andrea Lostia fu indicato come il capo di quella ribellione e fu arrestato, poi, fu trasferito a Piacenza in attesa del processo.

Andrea escogitò uno stratagemma per non far sapere ai familiari che si trovava in carcere, scriveva una lettera per la madre a Orotelli e poi la infilava in una busta più grande indirizzata a Genova al suo amico Daniele Mulas, il quale sfilava la prima busta e la spediva ai Lostia a Orotelli.

Ma due cugini di Andrea seppero per caso a Sarule, da un soldato in licenza, che Lostia era finito nei guai e non era più al reggimento così, lo zio agronomo e un suo cugino medico, partirono alla volta di Genova dove appresero ufficialmente che Andrea si trovava in carcere a Piacenza, in attesa di essere giudicato per ribellione contro le istituzioni.

A difesa sua, i Lostia, presentarono al comandante del reggimento le loro credenziali di appartenenti a una famiglia nobile e fedele alla casa reale, tanto che un loro zio, Giovanni Battista, nel 1808, era stato posto da re Vittorio Emanuele a capo della reale Governazione di Sassari e nominato anche comandante della Giurisprudenza.

Il colonnello, anche grazie alla testimonianza del capitano di cui Andrea Lostia era attendente, capì che non esisteva alcun complotto e non c’era stata una rivolta, ma solo una furiosa rissa tra sardi e continentali, il suo rapporto convinse anche il generale che dispose l’immediata scarcerazione dell’artigliere Lostia.

Il generale, del quale non si conosce il nome ma certamente le parole, rimase profondamente colpito da quella rissa e si chiedeva come fosse stato possibile che un gruppo esiguo di sardi avesse potuto sbaragliare un intero reggimento.

“Non è possibile, non è possibile” ripeteva incredulo, e quando se ne convinse convocò i suoi ufficiali e disse: “Se è vero, come è vero, che un gruppo di sardi riesce a sbaragliare un reggimento al completo, allora se riusciamo a formare una brigata di soli sardi potremmo vincere qualsiasi guerra”».

L’idea piacque allo Stato maggiore: erano nati i diavoli rossi, i Dimonios.

La Brigata “Sassari” si costituì il 1° marzo 1915 a Tempio Pausania con i Reggimenti di Fanteria 151° e 152° anch’essi di nuova formazione, fu un nucleo embrionale composto interamente di sardi, sia per la truppa che per sottoufficiali e ufficiali.

Durante la Grande Guerra la Brigata si batté con grande coraggio, tanto da essere più volte citata come “…speciale unità d’assalto…” e gli Austriaci imparano a temere questi soldati coriacei e testardi che contendevano il terreno palmo a palmo.

Nel luglio dello stesso anno attraversarono l’Isonzo e venne subito impegnata in combattimento, Bosco Cappuccio, Bosco Lancia, Bosco Triangolare furono tappe eroiche per il conseguimento del primo titolo d’onore che la Brigata conquistò espugnando le trincee delle “Frasche” e dei “Razzi“, meritando la citazione, prima tra tutte le unità dell’Esercito, sul bollettino del Comando Supremo.

Spostata dal Carso sull’altipiano di Asiago, nel giugno 1916 riconquistò Monte Fior, Monte Castelgomberto e Casera Zebio e il 3 agosto i suoi reggimenti ricevettero la prima Medaglia d’Oro.

Nei tragici giorni di Caporetto i fanti della “Sassari” contrastarono le avanguardie nemiche fino al Piave combattendo con straordinaria coesione morale, disperato orgoglio e granitica compattezza organica.

Il battaglione “Musinu” fu l’ultimo dell’intero Esercito a passare il Piave, inquadrato e al passo, quasi irridendo il nemico che incalzava e gli ultimi a ripiegare, i “Sassarini” furono i primi nella riscossa.

Sull’altopiano dei “Sette Comuni“, nel gennaio 1918, la Brigata fu protagonista della battaglia dei “Tre Monti” che valse la seconda Medaglia d’Oro alle Bandiere dei reggimenti.

Le due medaglie costarono un caro prezzo alla brigata “Sassari”, oltre 15.000 sardi perirono durante la grande guerra, 2164 caduti e 12858 tra feriti, mutilati e dispersi.

Nell’ordinamento provvisorio del 1919 la Brigata “Sassari” venne mantenuta tra le Brigate permanenti come riconoscimento per lo straordinario valore dimostrato in guerra, ma nel marzo 1943, durante la seconda guerra mondiale, la “Sassari” rientrò nella penisola, per costituire massa di manovra a difesa della Capitale.

Dall’8 al 10 settembre 1943 prese parte alla difesa di Roma, combattendo a Porta San Paolo e proprio il 10 settembre, posta in salvo in maniera avventurosa le Bandiere di Guerra in un monastero presso Monte Mario, i reparti della Divisione “Sassari” si sciolsero, per venire poi ricostituiti nuovamente nel 1958, come ancora oggi esiste.

Nel Regio Esercito le ondate d’assalto sortivano all’ordine “Avanti Savoia” gridato dal comandante, tale invito era seguito dal grido di guerra vero e proprio, urlato dal reparto, una frase breve e secca, di solito il motto del Corpo.

Nella Brigata “Sassari”, specialmente nei momenti critici in cui era necessario fare appello all’orgoglio etnico, il grido “Avanti Savoia” veniva spesso sostituito con il grido “Avanti Sardegna“, cui faceva seguito il grido di guerra “Forza Paris“, che tradotto significa “Forza Insieme”.

Ma questa, è un’altra storia.

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Luigi Rizzo – La beffa di Buccari

S:1 – Ep.27

Luigi Rizzo è una persona qualunque.

Luigi Rizzo nacque a Milazzo l’8 ottobre 1887 in una famiglia di comandanti di mercantili.

Capitano di lungo corso nella Marina mercantile, il 17 marzo 1912 fu nominato sottotenente di vascello di complemento della riserva navale.

Nel primo conflitto mondiale, dal giugno 1915 alla fine del 1916 venne destinato alla difesa marittima di Grado, dove, agli ordini del capitano di fregata Alfredo Dentice di Frasso, si distinse particolarmente ottenendo anche una medaglia d’argento al valor militare.

Successivamente fu trasferito nella neonata squadriglia dei MAS, prendendo parte a varie missioni di guerra.

Come già detto in precedenza, il Motoscafo armato silurante o Motoscafo antisommergibili, più conosciuto con la sigla MAS, era una piccola imbarcazione militare usata come mezzo d’assalto veloce e antisommergibile dalla Regia Marina durante la prima e la seconda guerra mondiale.

Fondamentalmente si trattava di un motoscafo da 12 a 30 tonnellate di dislocamento che arrivava ad un massimo di una decina di uomini di equipaggio, l’armamento era costituito da due siluri e alcune bombe di profondità antisommergibile, oltre a una mitragliatrice o a un cannoncino.

Nel maggio del 1917, proprio sui MAS, catturò due piloti di un idrovolante austriaco ammarato per avaria; per tale azione ottenne la seconda medaglia d’argento al valor militare.

Nel dicembre del 1917 affondò la corazzata guardacoste austriaca Wien, avvenuto nella rada di Trieste.

Per questa azione Rizzo venne decorato con la medaglia d’oro al valore militare e nello stesso mese, per le missioni compiute nella difesa delle foci del Piave, venne decorato con una terza medaglia d’argento al valor militare e promosso tenente di vascello per meriti di guerra, ottenendo il passaggio in s.p.e. (servizio permanente effettivo).

Nel giugno del 1918, come abbiamo già raccontato nell’episodio precedente del nostro podcast, al largo di Premuda, attaccò e affondò la corazzata Szent István e venne insignito della Croce di Cavaliere dell’Ordine Militare di Savoia; ma rifiutata per motivi politici, fu commutata in medaglia d’oro al valor militare per ciò che ricordiamo come l’impresa di Premuda.

Ma prima di questo evento, il nostro capitano Rizzo realizzò un’altra impresa che i nostri libri di storia ricordano ancora oggi come: La beffa di Buccari.

Il 9 gennaio 1918 l’ammiraglio Luigi Cito emanò direttive che il giorno seguente, l’ammiraglio Casanova, comandante della Divisione Navale di Venezia, diramò con ordini dettagliati per l’esecuzione dell’operazione contro la baia di Buccari.

Le condizioni meteorologiche però non consentirono l’effettuazione dell’uscita e questa venne rinviata fino al 4 febbraio, quando una ricognizione di un idrovolante su Pola, Fiume e Buccari segnalò la presenza di quattro unità nemiche nella rada di Buccari; così il 7 febbraio, si decise per un’azione nella baia.

Le unità designate furono il MAS 94 del sottotenente di vascello Andrea Ferrarini, il MAS 95 del tenente di vascello Odoardo Profeta De Santis e il MAS 96, del capitano di corvetta Luigi Rizzo con, a bordo, il comandante di missione capitano di fregata Costanzo Ciano e il Vate nazionale, Gabriele D’Annunzio.

Gli ordini prevedevano la costituzione di tre gruppi navali di cacciatorpediniere ed esploratori a traino e sostegno dei tre MAS che avrebbero assolto a determinate disposizioni:

Il 1º gruppo composto dall’esploratore Aquila e dai cacciatorpediniere Acerbi, Sirtori, Stocco, Ardente e Ardito dovevano ancorarsi a Porto Levante e tenersi pronte ad intervenire su ordine del comando in capo di Venezia.

Il 2º gruppo del capitano di fregata Arturo Ciano e composto dai caccia Animoso, Audace e Abba, dovevano rimorchiare i MAS fino a 20 miglia a ponente dell’isola di Sansego e qui avrebbe ceduto a rimorchio i MAS alle torpediniere e si sarebbero riposizionate a una distanza di 50 miglia da Ancona per fornire assistenza agli stessi nella fase di rientro.

In fine, il 3º gruppo, composto dalle torpediniere 18 P.N., 13 P.N. e 12 P.N. avrebbero rimorchiato i MAS fino alla congiungente Punta Kabile di Cherso – Punta Sant’Andrea, mentre il sommergibile F5 sarebbe rimasto in agguato in un’area di 15 miglia a ponente di Pola e il sommergibile F3 15 miglia a sud di Capo Promontore.

Dopo quattordici ore di navigazione, alle 22:00 circa del 10 febbraio, i tre MAS iniziarono il loro pericoloso trasferimento dalla zona compresa tra l’isola di Cherso e la costa istriana sino alla baia di Buccari dove, secondo le informazioni dello spionaggio, sostavano unità nemiche sia mercantili che militari.

Alle ore 22:15, giunti in prossimità del punto previsto, i MAS lasciarono i rimorchi e le siluranti diressero per il rientro.

I tre motoscafi iniziarono quindi l’attraversamento del canale di Faresina, senza che la batteria di Porto Re li scorgesse, e giunti ad un miglio dalla costa, spensero i motori a scoppio per azionare quelli elettrici.

Alle 0:35 i MAS giunsero all’imboccatura della baia di Buccari senza incontrare ostruzioni e individuarono gli obiettivi, tre piroscafi da carico e uno passeggeri.

I bersagli vennero quindi suddivisi tra i tre MAS: il MAS 96 il piroscafo 1, il MAS 94 sarebbe stato l’unico a dover colpire due piroscafi, 2 e 3, e il MAS 95 il piroscafo 4.

Alle 01:20 i MAS lanciarono i loro siluri; il MAS 95 lanciò un siluro nella zona dello scafo e un siluro al centro del piroscafo 4; il MAS 94 un siluro al centro del piroscafo 2 e al centro del piroscafo 3 mentre il MAS 96 lanciò due siluri nella zona dello scafo del piroscafo 1.

Dei sei siluri lanciati solo l’ultimo esplose, a dimostrazione che le unità erano protette da reti antisiluranti e che lo scoppio del secondo siluro del MAS 96 indicava la probabile rottura della rete col primo siluro che consentì la penetrazione del secondo.

Allo scoppio l’allarme fu immediato e le unità italiane riuscirono a riguadagnare il largo tra l’incredulità dei posti di vedetta austriaci, che non immaginavano possibile che unità italiane fossero entrate fino in fondo al porto, mentre i MAS, giunti al punto di riunione prestabilito, rientrarono ad Ancona completamente illesi alle 7:45.

Tre bottiglie suggellate dai colori nazionali furono lasciate su galleggianti nella parte più interna della baia di Buccari con, all’interno, un messaggio scritto da D’Annunzio, fatto che dette all’azione l’appellativo di “beffa di Buccari”.

«In onta alla cautissima Flotta austriaca occupata a covare senza fine dentro i porti sicuri la gloriuzza di Lissa, sono venuti col ferro e col fuoco a scuotere la prudenza nel suo più comodo rifugio i marinai d’Italia, che si ridono d’ogni sorta di reti e di sbarre, pronti sempre a osare l’inosabile. E un buon compagno, ben noto – il nemico capitale, fra tutti i nemici il nemicissimo, quello di Pola e di Cattaro – è venuto con loro a beffarsi della taglia»

Dal punto di vista tattico-operativo l’azione fu del tutto irrilevante: le navi austroungariche, protette efficacemente dalle reti anti-siluro non riportarono alcun danno materiale, anche se emerse una mancanza di coordinamento nel sistema di vigilanza che rese possibile l’azione dei marinai italiani e al contempo si capì che l’utilizzo di piccole imbarcazioni nell’oscurità avrebbe consentito in futuro di compiere altre azioni simili senza impiegare le grandi navi di superficie.

L’impresa di Buccari ebbe una grande risonanza in Italia, in una fase della guerra in cui gli aspetti psicologici stavano acquistando molta importanza.

D’Annunzio ebbe un ruolo fondamentale nel propagandare l’impresa e il suo messaggio lasciato nelle tre bottiglie ebbe grande diffusione e contribuì a risollevare il morale dell’esercito impegnato sul Piave.

Dopo questa impresa, e la fine della guerra, Luigi Rizzo divenne Volontario fiumano nel 1919, posto proprio da D’Annunzio alla guida della Flotta del Quarnaro e prestando la sua attività in favore del rifornimento di viveri alla città fino agli inizi del 1920.

Quell’anno lasciò il servizio attivo con il grado di capitano di fregata.

Nel dopoguerra assunse la presidenza della Società di Navigazione Eolia di Messina, poi fondò a Genova la Calatimbar, società tra armatori, esportatori e spedizionieri, che aveva lo scopo di imbarcare tutte le merci in partenza da quel porto.

Nel 1936, volontario, partecipò alla guerra d’Etiopia; il 18 giugno 1936 fu nominato ammiraglio di divisione della Riserva Navale per meriti eccezionali e nel 1939 fu Consigliere nazionale della Camera dei Fasci e delle Corporazioni ma poi, scoppiò la seconda guerra mondiale.

Il 10 giugno 1940, allo scoppio delle ostilità, chiese di rientrare in servizio e si occupò della lotta antisommergibile nel Canale di Sicilia; fu dispensato dal servizio nel gennaio dell’anno successivo assumendo la carica di presidente del Lloyd Triestino.

Il 20 febbraio 1942 fu nominato presidente dei Cantieri Riuniti dell’Adriatico.

Dopo l’8 settembre 1943, con il proclama di armistizio di Badoglio e l’annuncio dell’entrata in vigore dell’armistizio firmato il giorno 3 dal governo Badoglio I del Regno d’Italia con gli Alleati della seconda guerra mondiale e trasmesso al popolo italiano con un messaggio letto dallo stesso maresciallo Pietro Badoglio, ordinò il sabotaggio dei transatlantici e dei piroscafi affinché non cadessero in mano tedesca.

Per questa sua direttiva venne trasferito dalla Gestapo in Austria, prima nel carcere di Klagenfurt e successivamente nel soggiorno obbligato a Hirschegg.

Rimpatriato al termine del conflitto, morì a Roma il 27 giugno 1951, due mesi dopo un’operazione per un tumore al polmone.

L’operazione fu effettuata dal professor Raffaele Paolucci, suo grande amico, quello che durante la Grande Guerra era stato il protagonista con il maggiore del genio navale Raffaele Rossetti dell’affondamento nel porto di Pola della corazzata austriaca Viribus Unitis, che abbiamo raccontato nell’episodio 2 del nostro podcast.

Ma questa, è un’altra storia.

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Carl, Fritz e Karl – I macellai tedeschi

S:1 – Ep.26

Carl Großmann, Fritz Haarmann e Karl Denke sono tre persone qualunque.

Finiamo questo speciale sui serial killer della prima guerra mondiale, dopo essere stati con Landru in Francia, con Kiss in Ungheria e con Komarov in Russia con un tris inquietante accomunati dalla stessa nazione, i macellai tedeschi.

Carl Friedrich Wilhelm Großmann nacque a Neuruppin, una zona vicina a Berlino, il 13 dicembre del 1863; della sua infanzia non si sa molto.

Presumibilmente nacque in una famiglia poco abbiente, considerando che suo padre era un umile straccivendolo.

Già da piccolo per motivi sconosciuti sviluppò una spiccata tendenza al sadismo e alla perversione sessuale che lo portarono più volte a molestare e violentare i coetanei.

Dell’infanzia di Fritz Haarmann e Karl Denke si sa ancora meno di quella di Großmann, Haarmann nacque ad Hannover il 25 ottobre 1879 e Denke a Münsterberg l’11 febbraio 1860, ma di tutti e tre ancora oggi conosciamo bene come venivano chiamati per ciò che hanno fatto: Großmann era “il macellaio di Berlino”, Haarmann “il macellaio di Hannover” e Denke “il macellaio di Münsterberg”.

Großmann, Haarmann e Denke erano tre serial killer, erano tutti e tre tedeschi e tutti e tre con manie tragicamente simili e spaventosamente cruenti che gli fecero guadagnare pienamente il modo in cui erano stati etichettati.

Großmann, tra il 1879 e il 1895 visse come mendicante a Berlino e nel 1899 fu arrestato per crimini sessuali.

La sua prima vittima fu una bambina di 4 anni.

Dopo essere uscito dal carcere nel 1913 si trasferì in un piccolo appartamento nel povero e malfamato quartiere di Friedrichshain a Berlino, dove visse quasi tutta la sua vita.

Per tutti e tre, l’apice della loro attività fu durante il difficile clima della prima guerra mondiale in cui, ovviamente, la Germania era implicata in prima linea.

La guerra, qualunque essa sia, porta con sé un numero impressionante di problemi a tutte le nazioni coinvolte e in tutte, uno di questi problemi, è reperire beni di primissima necessità, come il cibo per sé e le proprie famiglie.

Le tasse imposte e gli espropri per nutrire i soldati al fronte lasciavano solamente le briciole ai cittadini comuni, briciole oltretutto molto care da acquistare e questo portò alla diffusione dell’illegalità, come, per esempio, il mercato nero del cibo.

Carl Großmann, a Berlino, aveva un modus operandi spinto dall’anima del predatore sessuale e dal proprio dissesto economico.

Dopo alcune bevute abbordava nei locali di infimo rango o alla stazione o in una piazza chiamata “Andreasplatz” delle prostitute; poi le portava nel suo appartamento e, dopo averci fatto sesso, le uccideva a colpi di ascia, le decapitava e infine le macellava.

I pezzi che gli sarebbero serviti più avanti li selezionava e conservava; il resto, composto in prevalenza da ossa, lo buttava in un canale, i “pezzi utili” venivano infine cucinati e usati per riempire dei panini che il giorno successivo avrebbe venduto vicino alla stazione.

I clienti li comperavano e li mangiavano: così facendo occultavano le prove; essendo inconsapevoli apprezzavano il sapore della carne e spesso chiedevano a Großmann dove l’avesse comprata, ma lui evitò di iniziare a fare discorsi pericolosi, solo alcune volte mentì, dicendo che la carne proveniva da alcuni fornitori.

Esaurita la carne e volenteroso di fare violenza, Großmann ricominciava.

Non tutta la carne che accumulava la dava ai clienti, ogni tanto la vendeva al mercato nero.

Inizialmente le sue vittime erano prostitute, poi passò ad adolescenti e ai bambini; infine arrivò ai cani e ai gatti.

Le prostitute, a differenza dei bambini, attiravano meno l’attenzione dell’opinione pubblica e della polizia, specialmente durante il periodo storico della Grande Guerra.

Gli omicidii iniziarono nel 1913 circa e finirono nell’agosto del 1921, 8 anni continui di omicidi.

Durante tutto questo periodo i vicini di Großmann, sebbene fossero spaventati da una presenza così tetra, introversa e misteriosa come la sua non sospettarono molto di lui, furono allertati solo quando videro che molte delle prostitute che entravano nel suo appartamento non ne uscivano più.

Fritz Haarmann aveva altri gusti, ma tranne questo futile particolare era uno stretto collega di Großmann.

Dal 1918 al 1924, per 6 anni, Haarmann commise almeno 24 assassinii, e forse oltre 27.

Le sue vittime erano “ragazzi di strada” che vagabondavano attorno alle stazioni ferroviarie: Haarmann li portava nel proprio appartamento, per poi ucciderli mordendoli alla gola in un atto di frenesia sessuale.

Durante il processo, si sparse la voce che avesse venduto la carne delle sue vittime al mercato nero spacciandola per maiale, ma non si trovarono prove concrete a suffragio di tale diceria, ma nemmeno prove che lo scagionasse veramente dall’averlo fatto.

Haarmann fu scoperto quando diversi resti ossei, che aveva scaricato nel fiume Leine, riemersero mentre Denke, il terzo macellaio, fu scoperto il 20 dicembre 1924, dopo aver ferito con un’ascia un vagabondo che aveva ospitato in casa sua, la polizia perquisì la casa trovando resti umani, carne sotto sale, pelle, grasso e denti in grossi recipienti, bretelle e lacci fatti in pelle umana e un registro contenente i dettagli di alcune decine di persone che Denke aveva assassinato e cannibalizzato nel corso degli anni.

La notizia del suo arresto scandalizzò la popolazione: Denke era conosciuto prima di allora per le sue opere di bene verso i poveri e i vagabondi del paese, a volte infatti li ospitava in casa dando loro vitto e alloggio senza pretese oppure elargiva abbondanti elemosine alla parrocchia.

Per questo veniva anche soprannominato “Padre Denke”.

La carne di alcune sue vittime era stata certamente venduta al mercato di Breslavia a basso prezzo, spacciata, anche in questo caso, per carne di maiale.

Come Haarmann e Denke, Großmann fu arrestato quando rapì un bambino che si trovava solo e lo violentò; poi lo lasciò andare ma senza prima minacciarlo di morte nel caso in cui avesse riferito il fatto a qualcuno.

Lo stesso giorno però il bambino tornò dai genitori e raccontò loro il fatto, che arrivò alle orecchie dei poliziotti.

Dal suo racconto raccolsero anche un identikit dell’aggressore e il modus operandi di quest’ultimo fu così collegato ad una serie di corpi ritrovati in un canale nello stesso periodo.

Le vittime in totale erano svariate decine, approssimativamente attorno alla trentina.

La polizia cominciò a fare interrogatori e ricerche, ma senza successo.

Il 21 agosto 1921 i vicini udirono dall’appartamento di Großmann alcune grida e forti rumori, che dopo pochi attimi cessarono, spaventati, decisero finalmente di chiamare le autorità.

La notte stessa gli agenti entrarono in casa sua: trovarono su un letto il cadavere di una prostituta morta da poco e diverse chiazze di sangue per la casa, che indicavano la presenza di almeno altre 3 persone, che però non trovarono, in quanto già cucinate e vendute.

La polizia, che finalmente aveva abbastanza prove, lo arrestò con l’accusa di omicidio di primo grado e lo portò in centrale.

Non confessò nulla agli agenti, ma fu ugualmente collegato alle ultime sparizioni e ai numerosi ritrovamenti, la soglia delle vittime sospettate si alzò così a 50.

Per i tre arrestati iniziarono gli iter giudiziari. Quello di Karl Denke fu molto breve, il giorno dopo il suo arresto, Denke, venne trovato impiccato nella sua cella d’isolamento e la verità dei fatti non poté essere completamente mai accertata.

La polizia lo ha comunque trovato colpevole di almeno 31 vittime, ma è fortemente sospettato di circa 40 omicidi in totale.

Per quanto riguarda Fritz Haarmann, a parte la tremenda crudeltà dei dettagli dei delitti che lo stesso ammise di aver commesso, scosse ancor più la società tedesca il coinvolgimento della polizia nel caso: Haarmann, che aveva precedenti penali per furto ed era stato in passato ricoverato in manicomio, era regolarmente usato dalla polizia come informatore, per cui era amico intimo di alcuni agenti che occasionalmente ricevevano da lui vestiti come “dono” e chiudevano un occhio sulla sua frequentazione di giovanissimi prostituti, l’omosessualità era illegale in Germania.

Haarman approfittò di tale ruolo presso la polizia adescando col ricatto nell’atrio della stazione di Hannover alcuni minorenni, vagabondi o prostituti fuggiti di casa, minacciando di denunciarli alle forze dell’ordine se non lo avessero accompagnato a casa sua.

Durante il processo Hans Grans, un giovane ladruncolo e prostituto, amante fisso e convivente di Haarman che rivendeva i vestiti delle vittime e per questo venne arrestato come complice di Haarmann, sostenne la sua estraneità ai crimini; il suo ruolo si sarebbe limitato a rivenderne gli abiti.

Ma Haarman lo denunciò quale complice in tutti i reati, riuscendo a convincere la giuria della sua colpevolezza.

Haarmann fu dichiarato capace di intendere e di volere, giudicato colpevole, condannato a 24 pene di morte, Grans ricevette inizialmente una condanna a morte per incitamento all’omicidio in un singolo caso.

Großmann fu processato anche lui ovviamente e il suo atteggiamento durante le udienze, definito “irritante”, non fece altro che rendere più lungo il processo e stizzire il pubblico.

Venne trovato colpevole di 26 omicidi dei 50 di cui era fortemente sospettato e condannato a morte.

Lui accolse il verdetto iniziando a ridere.

Carl Großmann, come Karl Denke, non poté mai essere giustiziato, in quanto si impiccò in cella il 5 luglio 1922, prima della data dell’esecuzione.

Aveva 58 anni.

Il suo suicidio, insieme all’assenza di una sua confessione, lasciò in sospeso il numero totale degli omicidii.

Fritz Haarmann fu decapitato il 15 aprile 1925, su pressione dell’opinione pubblica, la quale non avrebbe apprezzato che venisse semplicemente rinchiuso in un ospedale psichiatrico.

Dopo l’esecuzione capitale di Haarmann, fu trovata una sua lettera che scagionava Grans completamente, e dichiarava: “Avete giustiziato un innocente”.

Questo condusse ad un nuovo processo che commutò la condanna di Grans a 12 anni di prigione.

Ma questa, è un’altra storia.

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Vasilij Komarov – Il lupo di Mosca

S:1 – Ep.25

Vasilij Ivanovič Komarov è una persona qualunque.

Il terzo episodio dedicato agli omicidi seriali della prima guerra mondiale lascia l’Europa del francese Landru e dell’ungherese Kiss per entrare in quello che si chiamava ai tempi Impero Russo e che oggi è la Bielorussia.

Komarov nacque come Vasilij Terent’evič Petrov nel 1877 o 1878 (o nel 1871 secondo la sua testimonianza) a Vicebsk, una città a 500 kilometri a ovest di Mosca.

Nacque da un’umile famiglia di classe operaia e aveva cinque fratelli.

I suoi genitori erano entrambi affetti da alcolismo; Komarov all’età di 15 anni diventò anch’egli un alcolista cronico ed uno dei fratelli andò in carcere perché uccise una persona proprio mentre era ubriaco.

Da giovane si arruolò nell’esercito russo e vi militò per 4 anni.

A 28 anni si sposò per la prima volta e durante la guerra tra la Russia e il Giappone, nel 1904 e 1905, Komarov viaggiò nell’Estremo Oriente e mise da parte molti soldi, ma li sperperò tutti quasi interamente durante quel viaggio.

A 30 anni rapinò un magazzino: arrestato, rimase in carcere per un anno per sentenza del tribunale ma mentre era in carcere la moglie morì di colera.

Scarcerato, si trasferì a Riga dove sposò una vedova polacca di nome Sofia, che aveva due figli.

Komarov era un personaggio violento, picchiava spesso lei e i figli a causa del suo alcolismo.

Nel 1915, quando la prima guerra mondiale era iniziata da un anno e le truppe tedesche già erano arrivate nel Mar Baltico, si trasferì nuovamente nella regione del Volga.

Dopo la Rivoluzione d’ottobre del 1917 Komarov entrò nell’Armata Rossa e lì imparò a leggere.

Fece carriera militare e diventò un comandante di plotone; in almeno un’occasione prese il comando di un plotone di fucilazione per prigionieri nemici.

Nel 1919, durante una battaglia, fu catturato dai volontari dell’esercito del generale Anton Ivanovič Denikin, ma riuscì a fuggire.

Per evitare un processo del tribunale militare rivoluzionario e una sicura condanna a morte, cambiò nome in Vasilij Ivanovič Komarov e nel 1920, dopo la guerra civile, Komarov si trasferì al numero 26 del distretto di Šabolovki vicino al centro di Mosca.

Lì affittò un cavallo e una carrozza e diventò un tassista ma non si limitava a quel singolo lavoro, compì anche diversi furti facendo sparire la merce rubata vendendola al mercato.

Fino a qui abbiamo raccontato la storia di un ex militare, ma non ex alcolista, un violento proveniente da una famiglia difficile e cresciuto con semplici leggi di sopravvivenza, non certo per discolparlo ma bisogna sottolineare che il periodo storico in cui visse era difficile e caratterizzato da forti crisi, povertà, crimine, primo dopoguerra e persecuzioni politiche.

Komarov era una bomba pronta ad esplodere con attacchi d’ira difficilmente controllabili e, inevitabilmente, venne il giorno dell’esplosione.

Il primo delitto non era stato progettato.

Aveva invitato a casa sua un contadino che aveva intenzione di comperare un cavallo con del grano.

Komarov gli offrì da bere e lo fece involontariamente ubriacare.

Quando seppe che voleva comprarsi un cavallo per rivenderlo, pensò che fosse uno speculatore e gli venne un attacco d’ira: andò in giardino, prese un martello e gli spaccò il cranio, il corpo lo nascose in una casa diroccata nei pressi ed il tutto durò circa mezz’ora.

Quella tremenda esperienza non lo turbò, anzi, gli piacque talmente tanto che da quel momento in poi pensò di continuare ad uccidere; nel 1922 smise di nascondere i cadaveri in case abbandonate o in alcune buche e sfruttò la sua professione di tassista per scaricarli in giro.

Il suo modus operandi, identico per tutti gli omicidi, era il seguente: Komarov attirava a sé la vittima con la scusa di fargli visitare la sua scuderia di cavalli; arrivata al suo allevamento, la faceva ubriacare solitamente con vodka e la strangolava con una corda; altre volte la massacrava a martellate.

Qua, il calcolatore, aveva adottato la tecnica di far colare il sangue dal cranio spaccato in un sacco o in una ciotola; questo metodo iniziò ad utilizzarlo dopo che i vestiti della prima vittima si erano macchiati.

Generalmente tutte le vittime erano di sesso maschile.

I cadaveri venivano poi legati, infilati in sacchi di tela e occultati tra i rifiuti nel quartiere di Šabolovki o buttati nel fiume Moscova o sotterrati o nascosti in alcune case diroccate.

Infine si metteva a pregare tutta la notte; ironicamente casa sua si trovava vicino ad una chiesa, la moglie Sofia gli fece da complice nell’occultamento dei corpi: nell’inverno del 1922 scoprì i delitti del marito, ma alla fine ne rimase coinvolta perché il movente degli omicidi era fondamentalmente economico: Komarov infatti derubava le sue vittime, otteneva circa 80 centesimi a cadavere; in totale con 33 omicidi fece soltanto 26 dollari e 40 centesimi.

Gli omicidi partirono dal febbraio 1921, anno in cui si scoprì anche il primo cadavere, solamente quell’anno Komarov compì almeno 17 omicidi; dal 1922 alla metà del 1923 ne compì almeno altri 12.

Questa enorme catena di uccisioni, che terrorizzò la Russia degli anni ’20 e durò circa 2 anni, gli valse il soprannome di “Lupo di Mosca”.

Komarov era conosciuto dai vicini come un individuo cordiale, socievole e sempre sorridente che gestiva la sua semplice famiglia con il commercio di cavalli ma i suoi vicini sapevano anche che, dietro al suo sorriso, si nascondeva «una brutta vena violenta»: infatti una volta tentò di uccidere il figlio di 8 anni, che si salvò solamente grazie all’intervento della madre Sofia.

La polizia si sensibilizzò sul caso all’inizio del 1923, a seguito dell’ennesimo ritrovamento, scoprì che tutte le vittime sparivano con regolarità ogni mercoledì e venerdì nella zona del mercato, luogo dove Komarov usava abbordarli.

La polizia continuò le indagini e lui si insospettì, aveva appreso, forse tramite dei testimoni preoccupati, che le persone che andavano a vedere i suoi cavalli non tornavano più indietro e casualmente sparivano sempre di mercoledì e venerdì pomeriggio, primo indizio.

I corpi venivano trovati sempre di giovedì e sabato, il giorno dopo la visita alla scuderia, inoltre Komarov abitava nel distretto di Šabolovki, dove avvenivano le sparizioni e i ritrovamenti: scattò la prima ipotesi che il killer fosse proprio lui, secondo indizio.

I corpi venivano poi ritrovati in vari luoghi: quindi scattò un’altra ipotesi, e cioè che il killer fosse uno dei tanti tassisti di Mosca, una volta poi, sulla testa di un cadavere fu ritrovato un pannolino fresco, che forse serviva ad assorbire il sangue: quindi scattò la terza ipotesi che avesse avuto un figlio da poco, come aveva avuto Komarov.

E se è vero che, come si dice, tre indizi fanno una prova, per coincidenza, Komarov possedeva tutte queste caratteristiche: forse avevano trovato la pista giusta.

Poco tempo dopo, il 17 marzo, gli agenti andarono in casa sua con la finta accusa di contrabbando di liquore per sottoporlo ad un interrogatorio e durante la successiva inevitabile perquisizione di una stalla trovarono un cadavere avvolto in un sacco nascosto sotto al fieno.

Komarov, vistosi scoperto e preso dal panico, saltò da una finestra e scappò, sebbene l’edificio fosse circondato dalle forze dell’ordine così, durante il perdurare dei controlli di casa sua, fu trovato nell’armadio un corpo ancora caldo con la testa sfracellata.

Eluse gli agenti per un po’ di tempo, ma ormai le autorità erano sulle sue tracce e l’avevano identificato, fu arrestato un giorno dopo la fuga a Nikol’skij, villaggio a pochi chilometri da Mosca, placidamente Komarov in carcere confessò con indifferenza e a tratti felicità 33 omicidi, la polizia ne aveva già scoperti 21, a cui lo collegò e altri 12 cadaveri vennero trovati il giorno successivo nel fiume Moscova e nelle discariche.

Venne così il giorno del processo, che vide coinvolta anche la moglie.

Komarov provò a suicidarsi in cella per tre volte in attesa dell’udienza, senza mai riuscirci.

Chiese alle autorità un processo veloce e confidò nell’inevitabile pena morte, i tre psichiatri che lo esaminarono lo descrissero come un cinico insensibile che non provava rimorso per ciò che aveva fatto, anzi, si era dichiarato pronto ad uccidere altre 60 persone.

Disse di avere compiuto i delitti per motivi economici e che la sua psiche era degenerata a causa dei frequenti abusi di alcol; aggiunse poi che le vittime erano degli «odiosi e avidi speculatori che meritavano di morire al posto dei poveri soldati che combattevano durante la guerra», praticamente soffriva del complesso di Raskol’nikov.

Gli stessi psichiatri però sospettarono comunque che ci fosse qualcos’altro a spingerlo ad uccidere e conclusero le loro perizie allo stesso modo, per i professionisti l’imputato era sano di mente.

Fu processato a Mosca il 6 o 7 giugno 1923, davanti a una folla di giornalisti e curiosi, visto che il caso creò molto scalpore, la polizia fece molta fatica a trattenere la folla inferocita; Komarov commentò il fatto dicendo che il comportamento degli indignati lo faceva vomitare.

Quando gli venne chiesto perché avesse ucciso, lui strinse le spalle e disse «A causa del denaro».

All’alba dell’8 giugno venne dichiarato colpevole di 33 omicidi; sua moglie Sofia fu accusata di complicità e vennero entrambi condannati a morte tramite fucilazione con i figli mandati agli orfanotrofi; il figlio nato nel 1922 aveva appena un anno.

Komarov durante la sua permanenza in cella concesse molte interviste ai giornalisti, in cui disse che «aveva 52 anni e aveva trascorso una buona vita, e che non voleva vivere più», se fosse stato vero, allora sarebbe nato nel 1871, dichiarò anche che «uccidere era un lavoro terribilmente facile» e che «dopo la sua condanna a morte, sarebbe stato il suo turno di essere messo dentro a un sacco».

Qualche giorno prima tentò di fare un ricorso alla condanna che fu prontamente, e ovviamente, respinto.

Sofia e Vasilij Komarov furono fucilati da un plotone d’esecuzione a Mosca il 18 giugno 1923.

Alcuni ricercatori hanno poi ipotizzato che uno dei tre figli di Komarov, si schierò con i tedeschi durante la seconda guerra mondiale e si dedicò allo sterminio di soldati russi, partigiani e civili.

Tuttavia le prove di questa affermazione non sono mai state trovate.

Ma questa, è un’altra storia.

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Bèla Kiss – Il mostro di Cinkota

S:1 – Ep.24

Bèla Kiss è una persona qualunque.

Dopo il parigino Landru, la serie di episodi sui serial killer si sposta ad est della Francia ed approda in Ungheria, 100 kilometri a sud di Budapest.

Béla Kiss nacque nel 1877 a Izsák, nella grande pianura meridionale dell’Ungheria.

Kiss non andò mai a scuola ma imparò comunque a leggere da solo e si dimostrò sempre un lettore vorace.

Da giovane fece vari mestieri, tra cui la lettura della mano, studiò l’astrologia e l’occulto da autodidatta.

Nel 1890 svolse il servizio di leva obbligatoria ovviamente nell’esercito Austroungarico e nella primavera del 1900, all’età di 23 anni, si trasferì a Cinkota, appena fuori Budapest; al centro dell’Ungheria, la sua casa si trovava in via Kossuth, numero 9; successivamente traslocò al numero civico 17 di via Rákóczi.

Attorno al febbraio del 1912 si sposò con Mária, una donna di quindici anni più giovane di lui che aveva conosciuto da poco.

In quegli anni usava molto conoscere donne “da marito” tramite annunci vari come faceva anche il parigino Landru, e ad uno di quegli annunci di Kiss rispose proprio Mària, nello stesso periodo Kiss divenne amico del capo della polizia locale, il detective Kártoly Nagy; Kiss era conosciuto dagli abitanti del posto per la sua gentilezza.

Usciva spesso per motivi ignoti e trascorreva molte giornate a Budapest; tornava alle prime ore del mattino ma lavorava in maniera costante come lattoniere, un mestiere che gli permetteva di guadagnare bene.

Nel dicembre del 1912, dieci mesi dopo essersi sposato con Mària, Kiss scoprì che la moglie lo tradiva con un certo Pál Bihari, ne conseguì un litigio e il giorno dopo, Kiss, diffuse la notizia che la moglie era scappata con l’amante, e di fatti Mària e Pàl non si videro più a Cinkota.

In quegli anni, successivamente a quell’evento, iniziarono nella zona attorno a Budapest una serie di scomparse di donne, tutte giovani e in cerca di marito, ma non sempre se ne segnalava la scomparsa, a volte scappavano per amore o perché rimaste in cinta e l’onta della famiglia non si lavava facilmente, meglio una figlia scomparsa che in dolce attesa e magari senza marito.

Questa serie più numerosa di sparizioni durò fino almeno al novembre del 1914 e solamente quando furono denunciate dalle loro famiglie la scomparsa di Julianna Paschak e Erzsébet Komáromi la polizia di Budapest iniziò le ricerche.

Intanto scoppiò la prima guerra mondiale e Kiss, austroungarico, nel novembre del 1914 fu chiamato alle armi.

La partenza per la guerra lo aiutò a dileguarsi dalla sua città, Cinkota, lasciando a casa solamente la signora Jakubec.

Nel 1912, due anni prima dell’inizio della grande guerra e della obbligata partenza al fronte, Kiss assunse una governante, la Jakubec per l’appunto, che non si preoccupò mai delle voci delle scomparse di quel periodo.

Certo, il giorno dopo ogni sparizione nel giardino della casa di Bèla Kiss comparivano dei bidoni di metallo, tanto che un giorno l’amico detective Nagy, insospettito da ciò, chiese a Kiss cosa contenessero, la guerra era alle porte e non si poteva più rimandarla, egli rispose che “si era fatto una scorta di benzina, nel caso in cui la guerra fosse iniziata”.

Il poliziotto e la gente del posto si erano fatti l’idea che Kiss con quei fusti contrabbandasse liquore ma dopo che ammise ciò, tutti gli credettero, non era certo l’unico preoccupato in quel periodo pre bellico di far scorte di materiali primari.

Nel luglio del 1916, mentre Kiss era al fronte non si sa dove, il proprietario della sua ex-casa, giunto sul luogo per ristrutturare l’appartamento, notò alcuni bidoni di metallo nel giardino dai quali usciva un forte tanfo di putrefazione; avvisò la polizia che accorse sul luogo insieme ad un medico legale.

La scoperta fu agghiacciante, dentro ai fusti c’erano i cadaveri svestiti di alcune donne con segni di strangolamento sul collo, in un fusto fu ritrovato perfino la garrota utilizzata; in altri i cadaveri erano immersi nell’alcol.

Continuando a perlustrare la casa e le sue pertinenze, la polizia scoprì che in cantina c’erano sette barili, che contenevano una salma ciascuno: tra di esse c’erano quelle della moglie Mária Kiss e dell’amante Pál Bihari.

Si scoprì che Bèla Kiss, durante un litigio con la moglie quando scoprì del tradimento, la colpì con un bastone in testa e la strangolò con una garrota, un cavo di metallo pieghevole, la soffocò così forte da reciderle la gola e successivamente uccise anche Bihari per poi diffondere la notizia che i due amanti fossero scappati assieme.

Nella legnaia c’erano nascosti altri due morti; nel pollaio ce n’era un altro ancora, ma non finirono velocemente le macabre scoperte, in una stanza della casa, che Kiss aveva chiuso a chiave, c’erano le lettere, i gioielli e i vestiti appartenenti alle donne uccise; nella stessa stanza si trovarono anche dei libri che parlavano di veleni o strangolamenti.

Dietro alla scrivania, nascosto assieme alle lettere, c’era un album fotografico con le foto di circa 100 donne.

Il killer aveva proibito alla governante Jakubec di entrarci, ma le consegnò comunque la chiave, dalle lettere la polizia stabilì che aveva ricevuto 174 proposte di matrimonio e che ne aveva accettate 74.

Quindi Kiss intrattenne rapporti epistolari con almeno 74 donne.

Molti altri corpi vennero recuperati: era fortemente sospettato di almeno 30 omicidi ma, in luce dei ritrovamenti, la polizia ne verbalizzò solamente 24, tra cui ovviamente la moglie e l’amante, poi c’erano le due donne scomparse segnalate alla polizia a cui si aggiungevano Katalin Varga, la prima donna che si presentò da Kiss e che fu picchiata e strangolata la sera stessa, la signora Schmeidak, una vedova che si presentò da Kiss la settimana successiva e che due giorni dopo il killer stordì sbattendole la testa contro la parete e poi strangolò, e Margit Tóth, che si trasferì a Cinkota nel 1906 e si presentò da Kiss: lui la obbligò a scrivere una lettera da spedire alla madre, avrebbe dovuto fingere di essere partita per gli Stati Uniti d’America a seguito di un fallimento in amore, fu strangolata e fatta a pezzi anche lei e la lettera venne spedita poi per sviare i sospetti.

Il suo modus operandi era presso che sempre quello, caratteristica e firma dei serial killer: attirava le vittime del paese, tutte giovani donne, con dei finti annunci matrimoniali in casa e, dopo averle stordite con delle forti percosse, le strangolava con una garrota.

Per non farsi riconoscere usava un nome fittizio, “Herr Hoffmann” o “Elemér”.

Probabilmente uccideva le donne perché non era mai riuscito a perdonare Mària, nemmeno dopo averla uccisa, e a seguito dell’incidente con la moglie nutriva un profondo risentimento verso di loro, risentimento che forse si alleviava di poco dopo un omicidio ma che poi tornava tormentandolo nuovamente.

La governante apprese delle azioni di Kiss dalla polizia ed era presente durante il ritrovamento dei corpi sparsi per casa all’interno dei fusti maleodoranti, non era mai entrata nella stanza a lei proibita nonostante ne possedesse la chiave, era terrorizzata, fu sottoposta comunque ad un interrogatorio nel quale si dichiarò innocente, venendo infine scagionata dagli omicidi.

La polizia accertò, con il procedere delle indagini, che Kiss non aveva un complice.

La notizia del mostro di Cinkota fece velocemente il giro dell’Ungheria e le forze dell’ordine si misero in contatto con l’Esercito Austroungarico per fermare l’assassino seriale.

Il problema principale era che i nomi “Béla” e “Kiss” erano molto diffusi in quegli anni tra gli ungheresi; gli agenti si sarebbero trovati di fronte a migliaia di presunti serial killer che in quel momento erano impegnati nelle battaglie in luoghi sperduti per combattere la prima guerra mondiale.

Inizialmente, nel maggio del 1916, prima della macabra scoperta, circolava la notizia che Kiss fosse morto in battaglia e il 4 ottobre dello stesso anno le autorità vennero informate che Kiss era invece morto per una grave forma di tifo l’anno precedente, ma la notizia venne rettificata e l’Esercito affermò in un telegramma che era certamente morto in un ospedale da campo nella Serbia orientale dopo essere stato ferito in un combattimento.

La polizia voleva essere sicura che il serial killer fosse veramente defunto e si presentò per l’identificazione, tuttavia quando il cadavere venne scoperto, la polizia scoprì che non era quello di Kiss, o meglio, i documenti erano i suoi ma il killer, dopo aver appreso in giro la notizia che era stato scoperto, aveva scambiato i propri documenti d’identità con quelli di un altro soldato appena morto.

Quest’altro uomo aveva 20 anni ed era di carnagione chiara, mentre Kiss ne aveva circa 40 ed era di carnagione scura, il killer era ancora probabilmente vivo… e libero ancora di uccidere.

Da quel momento in poi gli agenti raccolsero alcune prove di avvistamento, ma non tutte potevano essere verificate: una di esse diceva che era stato imprigionato con l’accusa di furto con scasso in Romania; un’altra diceva che era morto di febbre gialla in Turchia, una segnalazione riferì che era stato avvistato mentre passeggiava su un ponte a Budapest nella primavera del 1919, quando la guerra, nel frattempo, era terminata.

All’inizio del 1920, un soldato disertore francese riferì alla polizia della Sûreté che aveva ascoltato un commilitone parlare “di come fosse bravo a strangolare le donne con una garrota”; questo commilitone si faceva proprio chiamare “Herr Hoffmann”, come uno dei suoi pseudonimi utilizzato da Kiss nei suoi annunci matrimoniali, ma quando la polizia ungherese apprese la notizia e cercò di raggiungerlo, il killer era fuggito nuovamente.

Dodici anni dopo, nel 1932, un poliziotto chiamato Henry “Camera Eye” Oswald riconobbe Kiss mentre usciva dalla metropolitana di New York a City Square, Kiss si accorse di essere spiato e si dileguò subito tra la folla, era scappato per la terza volta.

Oswald ritenne che egli vivesse da qualche parte nella city.

Nel 1936 la polizia venne avvisata che Kiss lavorava come portiere, custode e bidello in uno stabile; quando i poliziotti giunsero sul luogo, non trovarono nessuno: scoprirono che il portiere se n’era andato proprio il giorno prima.

Da quel momento sparì definitivamente.

Non è escluso che possa avere continuato a uccidere dopo l’ennesima fuga ma…

questa, è un’altra storia.

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