Carl, Fritz e Karl – I macellai tedeschi

S:1 – Ep.26

Carl Großmann, Fritz Haarmann e Karl Denke sono tre persone qualunque.

Finiamo questo speciale sui serial killer della prima guerra mondiale, dopo essere stati con Landru in Francia, con Kiss in Ungheria e con Komarov in Russia con un tris inquietante accomunati dalla stessa nazione, i macellai tedeschi.

Carl Friedrich Wilhelm Großmann nacque a Neuruppin, una zona vicina a Berlino, il 13 dicembre del 1863; della sua infanzia non si sa molto.

Presumibilmente nacque in una famiglia poco abbiente, considerando che suo padre era un umile straccivendolo.

Già da piccolo per motivi sconosciuti sviluppò una spiccata tendenza al sadismo e alla perversione sessuale che lo portarono più volte a molestare e violentare i coetanei.

Dell’infanzia di Fritz Haarmann e Karl Denke si sa ancora meno di quella di Großmann, Haarmann nacque ad Hannover il 25 ottobre 1879 e Denke a Münsterberg l’11 febbraio 1860, ma di tutti e tre ancora oggi conosciamo bene come venivano chiamati per ciò che hanno fatto: Großmann era “il macellaio di Berlino”, Haarmann “il macellaio di Hannover” e Denke “il macellaio di Münsterberg”.

Großmann, Haarmann e Denke erano tre serial killer, erano tutti e tre tedeschi e tutti e tre con manie tragicamente simili e spaventosamente cruenti che gli fecero guadagnare pienamente il modo in cui erano stati etichettati.

Großmann, tra il 1879 e il 1895 visse come mendicante a Berlino e nel 1899 fu arrestato per crimini sessuali.

La sua prima vittima fu una bambina di 4 anni.

Dopo essere uscito dal carcere nel 1913 si trasferì in un piccolo appartamento nel povero e malfamato quartiere di Friedrichshain a Berlino, dove visse quasi tutta la sua vita.

Per tutti e tre, l’apice della loro attività fu durante il difficile clima della prima guerra mondiale in cui, ovviamente, la Germania era implicata in prima linea.

La guerra, qualunque essa sia, porta con sé un numero impressionante di problemi a tutte le nazioni coinvolte e in tutte, uno di questi problemi, è reperire beni di primissima necessità, come il cibo per sé e le proprie famiglie.

Le tasse imposte e gli espropri per nutrire i soldati al fronte lasciavano solamente le briciole ai cittadini comuni, briciole oltretutto molto care da acquistare e questo portò alla diffusione dell’illegalità, come, per esempio, il mercato nero del cibo.

Carl Großmann, a Berlino, aveva un modus operandi spinto dall’anima del predatore sessuale e dal proprio dissesto economico.

Dopo alcune bevute abbordava nei locali di infimo rango o alla stazione o in una piazza chiamata “Andreasplatz” delle prostitute; poi le portava nel suo appartamento e, dopo averci fatto sesso, le uccideva a colpi di ascia, le decapitava e infine le macellava.

I pezzi che gli sarebbero serviti più avanti li selezionava e conservava; il resto, composto in prevalenza da ossa, lo buttava in un canale, i “pezzi utili” venivano infine cucinati e usati per riempire dei panini che il giorno successivo avrebbe venduto vicino alla stazione.

I clienti li comperavano e li mangiavano: così facendo occultavano le prove; essendo inconsapevoli apprezzavano il sapore della carne e spesso chiedevano a Großmann dove l’avesse comprata, ma lui evitò di iniziare a fare discorsi pericolosi, solo alcune volte mentì, dicendo che la carne proveniva da alcuni fornitori.

Esaurita la carne e volenteroso di fare violenza, Großmann ricominciava.

Non tutta la carne che accumulava la dava ai clienti, ogni tanto la vendeva al mercato nero.

Inizialmente le sue vittime erano prostitute, poi passò ad adolescenti e ai bambini; infine arrivò ai cani e ai gatti.

Le prostitute, a differenza dei bambini, attiravano meno l’attenzione dell’opinione pubblica e della polizia, specialmente durante il periodo storico della Grande Guerra.

Gli omicidii iniziarono nel 1913 circa e finirono nell’agosto del 1921, 8 anni continui di omicidi.

Durante tutto questo periodo i vicini di Großmann, sebbene fossero spaventati da una presenza così tetra, introversa e misteriosa come la sua non sospettarono molto di lui, furono allertati solo quando videro che molte delle prostitute che entravano nel suo appartamento non ne uscivano più.

Fritz Haarmann aveva altri gusti, ma tranne questo futile particolare era uno stretto collega di Großmann.

Dal 1918 al 1924, per 6 anni, Haarmann commise almeno 24 assassinii, e forse oltre 27.

Le sue vittime erano “ragazzi di strada” che vagabondavano attorno alle stazioni ferroviarie: Haarmann li portava nel proprio appartamento, per poi ucciderli mordendoli alla gola in un atto di frenesia sessuale.

Durante il processo, si sparse la voce che avesse venduto la carne delle sue vittime al mercato nero spacciandola per maiale, ma non si trovarono prove concrete a suffragio di tale diceria, ma nemmeno prove che lo scagionasse veramente dall’averlo fatto.

Haarmann fu scoperto quando diversi resti ossei, che aveva scaricato nel fiume Leine, riemersero mentre Denke, il terzo macellaio, fu scoperto il 20 dicembre 1924, dopo aver ferito con un’ascia un vagabondo che aveva ospitato in casa sua, la polizia perquisì la casa trovando resti umani, carne sotto sale, pelle, grasso e denti in grossi recipienti, bretelle e lacci fatti in pelle umana e un registro contenente i dettagli di alcune decine di persone che Denke aveva assassinato e cannibalizzato nel corso degli anni.

La notizia del suo arresto scandalizzò la popolazione: Denke era conosciuto prima di allora per le sue opere di bene verso i poveri e i vagabondi del paese, a volte infatti li ospitava in casa dando loro vitto e alloggio senza pretese oppure elargiva abbondanti elemosine alla parrocchia.

Per questo veniva anche soprannominato “Padre Denke”.

La carne di alcune sue vittime era stata certamente venduta al mercato di Breslavia a basso prezzo, spacciata, anche in questo caso, per carne di maiale.

Come Haarmann e Denke, Großmann fu arrestato quando rapì un bambino che si trovava solo e lo violentò; poi lo lasciò andare ma senza prima minacciarlo di morte nel caso in cui avesse riferito il fatto a qualcuno.

Lo stesso giorno però il bambino tornò dai genitori e raccontò loro il fatto, che arrivò alle orecchie dei poliziotti.

Dal suo racconto raccolsero anche un identikit dell’aggressore e il modus operandi di quest’ultimo fu così collegato ad una serie di corpi ritrovati in un canale nello stesso periodo.

Le vittime in totale erano svariate decine, approssimativamente attorno alla trentina.

La polizia cominciò a fare interrogatori e ricerche, ma senza successo.

Il 21 agosto 1921 i vicini udirono dall’appartamento di Großmann alcune grida e forti rumori, che dopo pochi attimi cessarono, spaventati, decisero finalmente di chiamare le autorità.

La notte stessa gli agenti entrarono in casa sua: trovarono su un letto il cadavere di una prostituta morta da poco e diverse chiazze di sangue per la casa, che indicavano la presenza di almeno altre 3 persone, che però non trovarono, in quanto già cucinate e vendute.

La polizia, che finalmente aveva abbastanza prove, lo arrestò con l’accusa di omicidio di primo grado e lo portò in centrale.

Non confessò nulla agli agenti, ma fu ugualmente collegato alle ultime sparizioni e ai numerosi ritrovamenti, la soglia delle vittime sospettate si alzò così a 50.

Per i tre arrestati iniziarono gli iter giudiziari. Quello di Karl Denke fu molto breve, il giorno dopo il suo arresto, Denke, venne trovato impiccato nella sua cella d’isolamento e la verità dei fatti non poté essere completamente mai accertata.

La polizia lo ha comunque trovato colpevole di almeno 31 vittime, ma è fortemente sospettato di circa 40 omicidi in totale.

Per quanto riguarda Fritz Haarmann, a parte la tremenda crudeltà dei dettagli dei delitti che lo stesso ammise di aver commesso, scosse ancor più la società tedesca il coinvolgimento della polizia nel caso: Haarmann, che aveva precedenti penali per furto ed era stato in passato ricoverato in manicomio, era regolarmente usato dalla polizia come informatore, per cui era amico intimo di alcuni agenti che occasionalmente ricevevano da lui vestiti come “dono” e chiudevano un occhio sulla sua frequentazione di giovanissimi prostituti, l’omosessualità era illegale in Germania.

Haarman approfittò di tale ruolo presso la polizia adescando col ricatto nell’atrio della stazione di Hannover alcuni minorenni, vagabondi o prostituti fuggiti di casa, minacciando di denunciarli alle forze dell’ordine se non lo avessero accompagnato a casa sua.

Durante il processo Hans Grans, un giovane ladruncolo e prostituto, amante fisso e convivente di Haarman che rivendeva i vestiti delle vittime e per questo venne arrestato come complice di Haarmann, sostenne la sua estraneità ai crimini; il suo ruolo si sarebbe limitato a rivenderne gli abiti.

Ma Haarman lo denunciò quale complice in tutti i reati, riuscendo a convincere la giuria della sua colpevolezza.

Haarmann fu dichiarato capace di intendere e di volere, giudicato colpevole, condannato a 24 pene di morte, Grans ricevette inizialmente una condanna a morte per incitamento all’omicidio in un singolo caso.

Großmann fu processato anche lui ovviamente e il suo atteggiamento durante le udienze, definito “irritante”, non fece altro che rendere più lungo il processo e stizzire il pubblico.

Venne trovato colpevole di 26 omicidi dei 50 di cui era fortemente sospettato e condannato a morte.

Lui accolse il verdetto iniziando a ridere.

Carl Großmann, come Karl Denke, non poté mai essere giustiziato, in quanto si impiccò in cella il 5 luglio 1922, prima della data dell’esecuzione.

Aveva 58 anni.

Il suo suicidio, insieme all’assenza di una sua confessione, lasciò in sospeso il numero totale degli omicidii.

Fritz Haarmann fu decapitato il 15 aprile 1925, su pressione dell’opinione pubblica, la quale non avrebbe apprezzato che venisse semplicemente rinchiuso in un ospedale psichiatrico.

Dopo l’esecuzione capitale di Haarmann, fu trovata una sua lettera che scagionava Grans completamente, e dichiarava: “Avete giustiziato un innocente”.

Questo condusse ad un nuovo processo che commutò la condanna di Grans a 12 anni di prigione.

Ma questa, è un’altra storia.

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Vasilij Komarov – Il lupo di Mosca

S:1 – Ep.25

Vasilij Ivanovič Komarov è una persona qualunque.

Il terzo episodio dedicato agli omicidi seriali della prima guerra mondiale lascia l’Europa del francese Landru e dell’ungherese Kiss per entrare in quello che si chiamava ai tempi Impero Russo e che oggi è la Bielorussia.

Komarov nacque come Vasilij Terent’evič Petrov nel 1877 o 1878 (o nel 1871 secondo la sua testimonianza) a Vicebsk, una città a 500 kilometri a ovest di Mosca.

Nacque da un’umile famiglia di classe operaia e aveva cinque fratelli.

I suoi genitori erano entrambi affetti da alcolismo; Komarov all’età di 15 anni diventò anch’egli un alcolista cronico ed uno dei fratelli andò in carcere perché uccise una persona proprio mentre era ubriaco.

Da giovane si arruolò nell’esercito russo e vi militò per 4 anni.

A 28 anni si sposò per la prima volta e durante la guerra tra la Russia e il Giappone, nel 1904 e 1905, Komarov viaggiò nell’Estremo Oriente e mise da parte molti soldi, ma li sperperò tutti quasi interamente durante quel viaggio.

A 30 anni rapinò un magazzino: arrestato, rimase in carcere per un anno per sentenza del tribunale ma mentre era in carcere la moglie morì di colera.

Scarcerato, si trasferì a Riga dove sposò una vedova polacca di nome Sofia, che aveva due figli.

Komarov era un personaggio violento, picchiava spesso lei e i figli a causa del suo alcolismo.

Nel 1915, quando la prima guerra mondiale era iniziata da un anno e le truppe tedesche già erano arrivate nel Mar Baltico, si trasferì nuovamente nella regione del Volga.

Dopo la Rivoluzione d’ottobre del 1917 Komarov entrò nell’Armata Rossa e lì imparò a leggere.

Fece carriera militare e diventò un comandante di plotone; in almeno un’occasione prese il comando di un plotone di fucilazione per prigionieri nemici.

Nel 1919, durante una battaglia, fu catturato dai volontari dell’esercito del generale Anton Ivanovič Denikin, ma riuscì a fuggire.

Per evitare un processo del tribunale militare rivoluzionario e una sicura condanna a morte, cambiò nome in Vasilij Ivanovič Komarov e nel 1920, dopo la guerra civile, Komarov si trasferì al numero 26 del distretto di Šabolovki vicino al centro di Mosca.

Lì affittò un cavallo e una carrozza e diventò un tassista ma non si limitava a quel singolo lavoro, compì anche diversi furti facendo sparire la merce rubata vendendola al mercato.

Fino a qui abbiamo raccontato la storia di un ex militare, ma non ex alcolista, un violento proveniente da una famiglia difficile e cresciuto con semplici leggi di sopravvivenza, non certo per discolparlo ma bisogna sottolineare che il periodo storico in cui visse era difficile e caratterizzato da forti crisi, povertà, crimine, primo dopoguerra e persecuzioni politiche.

Komarov era una bomba pronta ad esplodere con attacchi d’ira difficilmente controllabili e, inevitabilmente, venne il giorno dell’esplosione.

Il primo delitto non era stato progettato.

Aveva invitato a casa sua un contadino che aveva intenzione di comperare un cavallo con del grano.

Komarov gli offrì da bere e lo fece involontariamente ubriacare.

Quando seppe che voleva comprarsi un cavallo per rivenderlo, pensò che fosse uno speculatore e gli venne un attacco d’ira: andò in giardino, prese un martello e gli spaccò il cranio, il corpo lo nascose in una casa diroccata nei pressi ed il tutto durò circa mezz’ora.

Quella tremenda esperienza non lo turbò, anzi, gli piacque talmente tanto che da quel momento in poi pensò di continuare ad uccidere; nel 1922 smise di nascondere i cadaveri in case abbandonate o in alcune buche e sfruttò la sua professione di tassista per scaricarli in giro.

Il suo modus operandi, identico per tutti gli omicidi, era il seguente: Komarov attirava a sé la vittima con la scusa di fargli visitare la sua scuderia di cavalli; arrivata al suo allevamento, la faceva ubriacare solitamente con vodka e la strangolava con una corda; altre volte la massacrava a martellate.

Qua, il calcolatore, aveva adottato la tecnica di far colare il sangue dal cranio spaccato in un sacco o in una ciotola; questo metodo iniziò ad utilizzarlo dopo che i vestiti della prima vittima si erano macchiati.

Generalmente tutte le vittime erano di sesso maschile.

I cadaveri venivano poi legati, infilati in sacchi di tela e occultati tra i rifiuti nel quartiere di Šabolovki o buttati nel fiume Moscova o sotterrati o nascosti in alcune case diroccate.

Infine si metteva a pregare tutta la notte; ironicamente casa sua si trovava vicino ad una chiesa, la moglie Sofia gli fece da complice nell’occultamento dei corpi: nell’inverno del 1922 scoprì i delitti del marito, ma alla fine ne rimase coinvolta perché il movente degli omicidi era fondamentalmente economico: Komarov infatti derubava le sue vittime, otteneva circa 80 centesimi a cadavere; in totale con 33 omicidi fece soltanto 26 dollari e 40 centesimi.

Gli omicidi partirono dal febbraio 1921, anno in cui si scoprì anche il primo cadavere, solamente quell’anno Komarov compì almeno 17 omicidi; dal 1922 alla metà del 1923 ne compì almeno altri 12.

Questa enorme catena di uccisioni, che terrorizzò la Russia degli anni ’20 e durò circa 2 anni, gli valse il soprannome di “Lupo di Mosca”.

Komarov era conosciuto dai vicini come un individuo cordiale, socievole e sempre sorridente che gestiva la sua semplice famiglia con il commercio di cavalli ma i suoi vicini sapevano anche che, dietro al suo sorriso, si nascondeva «una brutta vena violenta»: infatti una volta tentò di uccidere il figlio di 8 anni, che si salvò solamente grazie all’intervento della madre Sofia.

La polizia si sensibilizzò sul caso all’inizio del 1923, a seguito dell’ennesimo ritrovamento, scoprì che tutte le vittime sparivano con regolarità ogni mercoledì e venerdì nella zona del mercato, luogo dove Komarov usava abbordarli.

La polizia continuò le indagini e lui si insospettì, aveva appreso, forse tramite dei testimoni preoccupati, che le persone che andavano a vedere i suoi cavalli non tornavano più indietro e casualmente sparivano sempre di mercoledì e venerdì pomeriggio, primo indizio.

I corpi venivano trovati sempre di giovedì e sabato, il giorno dopo la visita alla scuderia, inoltre Komarov abitava nel distretto di Šabolovki, dove avvenivano le sparizioni e i ritrovamenti: scattò la prima ipotesi che il killer fosse proprio lui, secondo indizio.

I corpi venivano poi ritrovati in vari luoghi: quindi scattò un’altra ipotesi, e cioè che il killer fosse uno dei tanti tassisti di Mosca, una volta poi, sulla testa di un cadavere fu ritrovato un pannolino fresco, che forse serviva ad assorbire il sangue: quindi scattò la terza ipotesi che avesse avuto un figlio da poco, come aveva avuto Komarov.

E se è vero che, come si dice, tre indizi fanno una prova, per coincidenza, Komarov possedeva tutte queste caratteristiche: forse avevano trovato la pista giusta.

Poco tempo dopo, il 17 marzo, gli agenti andarono in casa sua con la finta accusa di contrabbando di liquore per sottoporlo ad un interrogatorio e durante la successiva inevitabile perquisizione di una stalla trovarono un cadavere avvolto in un sacco nascosto sotto al fieno.

Komarov, vistosi scoperto e preso dal panico, saltò da una finestra e scappò, sebbene l’edificio fosse circondato dalle forze dell’ordine così, durante il perdurare dei controlli di casa sua, fu trovato nell’armadio un corpo ancora caldo con la testa sfracellata.

Eluse gli agenti per un po’ di tempo, ma ormai le autorità erano sulle sue tracce e l’avevano identificato, fu arrestato un giorno dopo la fuga a Nikol’skij, villaggio a pochi chilometri da Mosca, placidamente Komarov in carcere confessò con indifferenza e a tratti felicità 33 omicidi, la polizia ne aveva già scoperti 21, a cui lo collegò e altri 12 cadaveri vennero trovati il giorno successivo nel fiume Moscova e nelle discariche.

Venne così il giorno del processo, che vide coinvolta anche la moglie.

Komarov provò a suicidarsi in cella per tre volte in attesa dell’udienza, senza mai riuscirci.

Chiese alle autorità un processo veloce e confidò nell’inevitabile pena morte, i tre psichiatri che lo esaminarono lo descrissero come un cinico insensibile che non provava rimorso per ciò che aveva fatto, anzi, si era dichiarato pronto ad uccidere altre 60 persone.

Disse di avere compiuto i delitti per motivi economici e che la sua psiche era degenerata a causa dei frequenti abusi di alcol; aggiunse poi che le vittime erano degli «odiosi e avidi speculatori che meritavano di morire al posto dei poveri soldati che combattevano durante la guerra», praticamente soffriva del complesso di Raskol’nikov.

Gli stessi psichiatri però sospettarono comunque che ci fosse qualcos’altro a spingerlo ad uccidere e conclusero le loro perizie allo stesso modo, per i professionisti l’imputato era sano di mente.

Fu processato a Mosca il 6 o 7 giugno 1923, davanti a una folla di giornalisti e curiosi, visto che il caso creò molto scalpore, la polizia fece molta fatica a trattenere la folla inferocita; Komarov commentò il fatto dicendo che il comportamento degli indignati lo faceva vomitare.

Quando gli venne chiesto perché avesse ucciso, lui strinse le spalle e disse «A causa del denaro».

All’alba dell’8 giugno venne dichiarato colpevole di 33 omicidi; sua moglie Sofia fu accusata di complicità e vennero entrambi condannati a morte tramite fucilazione con i figli mandati agli orfanotrofi; il figlio nato nel 1922 aveva appena un anno.

Komarov durante la sua permanenza in cella concesse molte interviste ai giornalisti, in cui disse che «aveva 52 anni e aveva trascorso una buona vita, e che non voleva vivere più», se fosse stato vero, allora sarebbe nato nel 1871, dichiarò anche che «uccidere era un lavoro terribilmente facile» e che «dopo la sua condanna a morte, sarebbe stato il suo turno di essere messo dentro a un sacco».

Qualche giorno prima tentò di fare un ricorso alla condanna che fu prontamente, e ovviamente, respinto.

Sofia e Vasilij Komarov furono fucilati da un plotone d’esecuzione a Mosca il 18 giugno 1923.

Alcuni ricercatori hanno poi ipotizzato che uno dei tre figli di Komarov, si schierò con i tedeschi durante la seconda guerra mondiale e si dedicò allo sterminio di soldati russi, partigiani e civili.

Tuttavia le prove di questa affermazione non sono mai state trovate.

Ma questa, è un’altra storia.

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Bèla Kiss – Il mostro di Cinkota

S:1 – Ep.24

Bèla Kiss è una persona qualunque.

Dopo il parigino Landru, la serie di episodi sui serial killer si sposta ad est della Francia ed approda in Ungheria, 100 kilometri a sud di Budapest.

Béla Kiss nacque nel 1877 a Izsák, nella grande pianura meridionale dell’Ungheria.

Kiss non andò mai a scuola ma imparò comunque a leggere da solo e si dimostrò sempre un lettore vorace.

Da giovane fece vari mestieri, tra cui la lettura della mano, studiò l’astrologia e l’occulto da autodidatta.

Nel 1890 svolse il servizio di leva obbligatoria ovviamente nell’esercito Austroungarico e nella primavera del 1900, all’età di 23 anni, si trasferì a Cinkota, appena fuori Budapest; al centro dell’Ungheria, la sua casa si trovava in via Kossuth, numero 9; successivamente traslocò al numero civico 17 di via Rákóczi.

Attorno al febbraio del 1912 si sposò con Mária, una donna di quindici anni più giovane di lui che aveva conosciuto da poco.

In quegli anni usava molto conoscere donne “da marito” tramite annunci vari come faceva anche il parigino Landru, e ad uno di quegli annunci di Kiss rispose proprio Mària, nello stesso periodo Kiss divenne amico del capo della polizia locale, il detective Kártoly Nagy; Kiss era conosciuto dagli abitanti del posto per la sua gentilezza.

Usciva spesso per motivi ignoti e trascorreva molte giornate a Budapest; tornava alle prime ore del mattino ma lavorava in maniera costante come lattoniere, un mestiere che gli permetteva di guadagnare bene.

Nel dicembre del 1912, dieci mesi dopo essersi sposato con Mària, Kiss scoprì che la moglie lo tradiva con un certo Pál Bihari, ne conseguì un litigio e il giorno dopo, Kiss, diffuse la notizia che la moglie era scappata con l’amante, e di fatti Mària e Pàl non si videro più a Cinkota.

In quegli anni, successivamente a quell’evento, iniziarono nella zona attorno a Budapest una serie di scomparse di donne, tutte giovani e in cerca di marito, ma non sempre se ne segnalava la scomparsa, a volte scappavano per amore o perché rimaste in cinta e l’onta della famiglia non si lavava facilmente, meglio una figlia scomparsa che in dolce attesa e magari senza marito.

Questa serie più numerosa di sparizioni durò fino almeno al novembre del 1914 e solamente quando furono denunciate dalle loro famiglie la scomparsa di Julianna Paschak e Erzsébet Komáromi la polizia di Budapest iniziò le ricerche.

Intanto scoppiò la prima guerra mondiale e Kiss, austroungarico, nel novembre del 1914 fu chiamato alle armi.

La partenza per la guerra lo aiutò a dileguarsi dalla sua città, Cinkota, lasciando a casa solamente la signora Jakubec.

Nel 1912, due anni prima dell’inizio della grande guerra e della obbligata partenza al fronte, Kiss assunse una governante, la Jakubec per l’appunto, che non si preoccupò mai delle voci delle scomparse di quel periodo.

Certo, il giorno dopo ogni sparizione nel giardino della casa di Bèla Kiss comparivano dei bidoni di metallo, tanto che un giorno l’amico detective Nagy, insospettito da ciò, chiese a Kiss cosa contenessero, la guerra era alle porte e non si poteva più rimandarla, egli rispose che “si era fatto una scorta di benzina, nel caso in cui la guerra fosse iniziata”.

Il poliziotto e la gente del posto si erano fatti l’idea che Kiss con quei fusti contrabbandasse liquore ma dopo che ammise ciò, tutti gli credettero, non era certo l’unico preoccupato in quel periodo pre bellico di far scorte di materiali primari.

Nel luglio del 1916, mentre Kiss era al fronte non si sa dove, il proprietario della sua ex-casa, giunto sul luogo per ristrutturare l’appartamento, notò alcuni bidoni di metallo nel giardino dai quali usciva un forte tanfo di putrefazione; avvisò la polizia che accorse sul luogo insieme ad un medico legale.

La scoperta fu agghiacciante, dentro ai fusti c’erano i cadaveri svestiti di alcune donne con segni di strangolamento sul collo, in un fusto fu ritrovato perfino la garrota utilizzata; in altri i cadaveri erano immersi nell’alcol.

Continuando a perlustrare la casa e le sue pertinenze, la polizia scoprì che in cantina c’erano sette barili, che contenevano una salma ciascuno: tra di esse c’erano quelle della moglie Mária Kiss e dell’amante Pál Bihari.

Si scoprì che Bèla Kiss, durante un litigio con la moglie quando scoprì del tradimento, la colpì con un bastone in testa e la strangolò con una garrota, un cavo di metallo pieghevole, la soffocò così forte da reciderle la gola e successivamente uccise anche Bihari per poi diffondere la notizia che i due amanti fossero scappati assieme.

Nella legnaia c’erano nascosti altri due morti; nel pollaio ce n’era un altro ancora, ma non finirono velocemente le macabre scoperte, in una stanza della casa, che Kiss aveva chiuso a chiave, c’erano le lettere, i gioielli e i vestiti appartenenti alle donne uccise; nella stessa stanza si trovarono anche dei libri che parlavano di veleni o strangolamenti.

Dietro alla scrivania, nascosto assieme alle lettere, c’era un album fotografico con le foto di circa 100 donne.

Il killer aveva proibito alla governante Jakubec di entrarci, ma le consegnò comunque la chiave, dalle lettere la polizia stabilì che aveva ricevuto 174 proposte di matrimonio e che ne aveva accettate 74.

Quindi Kiss intrattenne rapporti epistolari con almeno 74 donne.

Molti altri corpi vennero recuperati: era fortemente sospettato di almeno 30 omicidi ma, in luce dei ritrovamenti, la polizia ne verbalizzò solamente 24, tra cui ovviamente la moglie e l’amante, poi c’erano le due donne scomparse segnalate alla polizia a cui si aggiungevano Katalin Varga, la prima donna che si presentò da Kiss e che fu picchiata e strangolata la sera stessa, la signora Schmeidak, una vedova che si presentò da Kiss la settimana successiva e che due giorni dopo il killer stordì sbattendole la testa contro la parete e poi strangolò, e Margit Tóth, che si trasferì a Cinkota nel 1906 e si presentò da Kiss: lui la obbligò a scrivere una lettera da spedire alla madre, avrebbe dovuto fingere di essere partita per gli Stati Uniti d’America a seguito di un fallimento in amore, fu strangolata e fatta a pezzi anche lei e la lettera venne spedita poi per sviare i sospetti.

Il suo modus operandi era presso che sempre quello, caratteristica e firma dei serial killer: attirava le vittime del paese, tutte giovani donne, con dei finti annunci matrimoniali in casa e, dopo averle stordite con delle forti percosse, le strangolava con una garrota.

Per non farsi riconoscere usava un nome fittizio, “Herr Hoffmann” o “Elemér”.

Probabilmente uccideva le donne perché non era mai riuscito a perdonare Mària, nemmeno dopo averla uccisa, e a seguito dell’incidente con la moglie nutriva un profondo risentimento verso di loro, risentimento che forse si alleviava di poco dopo un omicidio ma che poi tornava tormentandolo nuovamente.

La governante apprese delle azioni di Kiss dalla polizia ed era presente durante il ritrovamento dei corpi sparsi per casa all’interno dei fusti maleodoranti, non era mai entrata nella stanza a lei proibita nonostante ne possedesse la chiave, era terrorizzata, fu sottoposta comunque ad un interrogatorio nel quale si dichiarò innocente, venendo infine scagionata dagli omicidi.

La polizia accertò, con il procedere delle indagini, che Kiss non aveva un complice.

La notizia del mostro di Cinkota fece velocemente il giro dell’Ungheria e le forze dell’ordine si misero in contatto con l’Esercito Austroungarico per fermare l’assassino seriale.

Il problema principale era che i nomi “Béla” e “Kiss” erano molto diffusi in quegli anni tra gli ungheresi; gli agenti si sarebbero trovati di fronte a migliaia di presunti serial killer che in quel momento erano impegnati nelle battaglie in luoghi sperduti per combattere la prima guerra mondiale.

Inizialmente, nel maggio del 1916, prima della macabra scoperta, circolava la notizia che Kiss fosse morto in battaglia e il 4 ottobre dello stesso anno le autorità vennero informate che Kiss era invece morto per una grave forma di tifo l’anno precedente, ma la notizia venne rettificata e l’Esercito affermò in un telegramma che era certamente morto in un ospedale da campo nella Serbia orientale dopo essere stato ferito in un combattimento.

La polizia voleva essere sicura che il serial killer fosse veramente defunto e si presentò per l’identificazione, tuttavia quando il cadavere venne scoperto, la polizia scoprì che non era quello di Kiss, o meglio, i documenti erano i suoi ma il killer, dopo aver appreso in giro la notizia che era stato scoperto, aveva scambiato i propri documenti d’identità con quelli di un altro soldato appena morto.

Quest’altro uomo aveva 20 anni ed era di carnagione chiara, mentre Kiss ne aveva circa 40 ed era di carnagione scura, il killer era ancora probabilmente vivo… e libero ancora di uccidere.

Da quel momento in poi gli agenti raccolsero alcune prove di avvistamento, ma non tutte potevano essere verificate: una di esse diceva che era stato imprigionato con l’accusa di furto con scasso in Romania; un’altra diceva che era morto di febbre gialla in Turchia, una segnalazione riferì che era stato avvistato mentre passeggiava su un ponte a Budapest nella primavera del 1919, quando la guerra, nel frattempo, era terminata.

All’inizio del 1920, un soldato disertore francese riferì alla polizia della Sûreté che aveva ascoltato un commilitone parlare “di come fosse bravo a strangolare le donne con una garrota”; questo commilitone si faceva proprio chiamare “Herr Hoffmann”, come uno dei suoi pseudonimi utilizzato da Kiss nei suoi annunci matrimoniali, ma quando la polizia ungherese apprese la notizia e cercò di raggiungerlo, il killer era fuggito nuovamente.

Dodici anni dopo, nel 1932, un poliziotto chiamato Henry “Camera Eye” Oswald riconobbe Kiss mentre usciva dalla metropolitana di New York a City Square, Kiss si accorse di essere spiato e si dileguò subito tra la folla, era scappato per la terza volta.

Oswald ritenne che egli vivesse da qualche parte nella city.

Nel 1936 la polizia venne avvisata che Kiss lavorava come portiere, custode e bidello in uno stabile; quando i poliziotti giunsero sul luogo, non trovarono nessuno: scoprirono che il portiere se n’era andato proprio il giorno prima.

Da quel momento sparì definitivamente.

Non è escluso che possa avere continuato a uccidere dopo l’ennesima fuga ma…

questa, è un’altra storia.

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Henri Landru – Barbablù

S:1 – Ep.23

Henri Désiré Landru è una persona qualunque.

Con Henri Landru iniziamo una serie di 4 puntate dedicate ai serial killer più feroci del periodo della grande guerra, predatori spietati, portatori di divise dei vari eserciti o che comunque, in un qualche modo, ne hanno fatto parte, assassini seriali di donne e di uomini.

In questi episodi vi racconterò dell’ungherese Bèla Kiss – Il mostro di Cinkota, del russo Vasilij Komarov – Il lupo di Mosca e di Carl Großmann, Fritz Haarmann e Karl Denke i macellai tedeschi

Tre tedeschi, un russo, un ungherese e un francese, 6 persone qualunque che non potevano fermarsi dall’uccidere in maniera seriale per le più svariate motivazioni personali ma andiamo per ordine, il primo è un francese.

Henri Landru nasce a Parigi il 12 aprile 1869, data che anni dopo festeggerà in modo del tutto diverso, di certo il suo peggior compleanno.

Figlio di un autista e di una sarta, Henri cresce sano, mostrando intelligenza ma anche una certa timidezza.

I voti a scuola non sono eccellenti ma neppure pessimi, tanto da permettergli di superare i vari gradi delle scuole fino ad iscriversi alla facoltà di ingegneria meccanica.

Nel frattempo arriva la chiamata alle armi, periodo durante il quale Henri dimostra disciplina e applicazione ottenendo i gradi di sergente; ma non è quella la vita che Henri vuole fare e quando finalmente poté scegliere, lasciò l’esercito.

Nel 1898, tolti i panni del militare, ha un’idea innovativa, una bicicletta a motore di sua invenzione, ribattezzata modello “Landru” ma il progetto, mai realizzato, ottiene comunque l’appoggio finanziario di vari investitori, Landru, appena intascato i soldi, sparisce.

Non fu l’unico raggiro nella vita di Henri, sull’onda di soldi facili senza lavorare, escogita altre truffe successive, tra cui quella del rigattiere che però lo portano inevitabilmente in carcere, e proprio lì rinchiuso Henri medita quella che, secondo lui, lo porterà alla facile ricchezza senza fatica.

Si accorge che, leggendo le rubriche sui quotidiani dedicate ai cuori solitari, sono tante le donne, spesso vedove e benestanti, che anelano al matrimonio nella vita e per questo, grazie anche alla monotonia della vita da carcerato, inizia a pubblicare inserzioni sentimentali, proponendosi come signore di mezza età, colto e agiato, desideroso di convolare a giuste nozze.

La prima vittima a cadere nella sua fitta ragnatela è una giovane ricca vedova di Lille alla quale Henri, appena uscito dal carcere, riesce a estorcere la ragguardevole cifra di 15000 franchi.

La Francia venne impegnata nel frattempo nella prima guerra mondiale, 1.350.000 vittime fra i soli militari francesi erano una vera e propria fucina di vedove, molte giovani e con ancora una vita davanti desiderose di compagnia, quelle benestanti erano quelle che a Henri, ovviamente, piacevano di più.

Ma cosa farci poi con le vedove, soprattutto se avevano anche figli, una volta che gli aveva estorto il denaro?

Purtroppo era semplice, perché Henri diventò in fretta un omicida seriale.

Grazie alla sua eloquenza, riusciva a far firmare alle sue vittime una procura che gli permetteva di far man bassa dei loro conti bancari, ottenuto questo aspettava il momento giusto e le strangolava, faceva poi sparire i corpi facendoli a pezzi e bruciandoli nel forno situato nella cucina della sua villa.

Questo era il suo modus operandi, vedova dopo vedova, fino a contarne almeno una decina.

Benché fosse alquanto isolata, la villa di Henri era comunque relativamente vicina ad alcune abitazioni, i cui residenti non potevano fare a meno di notare il frequente odore pestilenziale emanato dal fumo che usciva dal camino in periodi in cui il riscaldamento non era nemmeno necessario.

Insospettiti, avvisarono così più volte la polizia, invitandola a perquisire la villa, ma ad ogni modo Landru riuscì a restare a lungo nell’ombra, grazie alla cautela utilizzata nel compiere i suoi efferati crimini.

Egli, infatti, una volta che il cadavere si era incenerito e il fuoco spento, puliva accuratamente il forno dalla cenere che poi spargeva nei campi vicini, eliminando così tutte le tracce e le possibili prove che avrebbero potuto incriminarlo.

Petit, o Fremyet, Guillet erano solo alcune firme da lui utilizzate negli annunci, cambiava spesso testo per non essere identificato e collegato ad altri annunci, a volte era un vedovo padre di due figli, a volte un semplice vedovo dal cuore infranto o talvolta semplicemente un cuore solitario, comunque era purtroppo sempre Henri Landru.

Tutto funzionava a meraviglia fino a che non fu arrestato il 12 aprile 1919, giorno del suo cinquantesimo compleanno, con l’accusa di truffa ed appropriazione indebita in seguito alle denunce sporte da alcuni parenti delle vittime dopo la loro scomparsa.

Ben presto, dall’analisi di vari indizi concordanti, l’accusa si trasformò in quella dell’omicidio di almeno dieci donne e di un ragazzino che accompagnava una delle vittime, la prima per l’esattezza.

Quel giorno, il 12 aprile alle 9.00 in punto, suonò il campanello di casa Landru, aprendo la porta mentre Fernande Segret, forse la futura undicesima vittima, dormiva ancora nel suo letto, piombarono a casa sua alcuni poliziotti guidati dall’ispettore Jules Belin che lo prelevarono con la forza.

L’ispettore aveva raccolto le testimonianze di parenti e amici vari delle dieci vittime ufficiali di Henri, tra cui quella di Laure Bonhoure che aveva riconosciuto Henri all’uscita di un negozio sotto braccio ad una donna bionda che non conosceva, ma conosceva Henri perché aveva frequentato l’amica Celestine Buisson, di cui nessuno aveva più notizie da tempo.

Se la polizia durante la prima guerra mondiale aveva a che fare con problemi, diciamo così, più gravi di donne vedove che sparivano di tanto in tanto, nel 1919, a cannoni fermi, era ora di occuparsi anche di quelle scomparse, ritardatario lavoro portato avanti anche dall’ispettore Belin.

Il processo, che all’epoca ebbe un’enorme eco mediatico dato dal fatto che non c’era più bisogno di riportare i fatti della prima guerra mondiale, si aprì il 7 novembre 1921 davanti alla Corte d’assise di Seine-et-Oise nella sede di Versailles.

Henri Landru negò fin dall’inizio di essere l’autore dei crimini, ammettendo tuttavia di aver truffato le presunte vittime.

Manifestò a più riprese un atteggiamento spesso provocatorio nei confronti della corte, arrivando perfino ad esclamare, più e più volte: “Mostratemi i cadaveri!”.

La cucina a legna nella quale aveva bruciato i corpi fu trasportata nell’aula del tribunale, mentre una meticolosa perquisizione del giardino della casa di Gambais rivelò frammenti di ossa umane e molti denti, ma anche resti di animali.

Sebbene le prove materiali fossero scarse, teniamo presente che la scienza forense non aveva l’esperienza dei giorni nostri, la giuria fu influenzata da un’agendina di Landru in cui erano meticolosamente registrate, di suo pugno, le spese del viaggio di andata di ogni vittima, mentre erano del tutto assenti le spese del viaggio di ritorno, di questo fatto egli non riuscì a dare alcuna spiegazione convincente.

Emersero così dei nomi, nel 1915 la prima vittima fu proprio Jeanne-Marie Cuchet, una giovane vedova di trentanove anni scomparsa assieme al figlio Andrè e, sempre nello stesso anno, la stessa sorte colpì Thèrese Laborde-Line, Marie-Angèlique Guillin e Berthe-Anne Collomb.

L’anno successivo, nel 1916, svanì nel nulla Andrèe-Anne Babelay a soli 19 anni e Cèlestine Buisson, l’amica dell’ultima segnalatrice, seguirono poi negli anni successivi Louise-Jòsephine Jaume, Anne-Marie Pascal e, nel gennaio 1919, Marie-Thèrèse Marchadier, vedova e proprietaria di una pensione proprio a Parigi.

Vincent de Moro-Giafferi, il suo avvocato, uno dei più famosi in Francia, lo difese strenuamente, nonostante le prove mancava la “regina”, e cioè i corpi, o almeno uno, delle vittime dichiarate, l’avvocato continuò asserendo sì le truffe, come già ammesse da Landru, ma non certo gli omicidi di cui Henri era accusato.

I giornali divulgano notizie e avevano pronto il nomignolo, Barbablù, come il protagonista della fiaba di Charles Perrault, l’uxoricida responsabile delle morti delle sue sei mogli, ma di fronte a una serie di testimonianze schiaccianti e a numerosissime prove circostanziali, né Henri e né il suo avvocato poterono evitarne la condanna a morte, pronunciata il 30 novembre 1921.

Landru ascoltò serafico la lettura del verdetto emesso dalla giuria, quasi non lo riguardasse, come se lui fosse lì per puro caso o per un palese errore giudiziario e trascorse i pochi mesi che lo separavano dalla ghigliottina sereno, in linea con lo stile che aveva sempre avuto fin dal primo giorno del processo.

Anatole Deibler, il più famoso boia della Francia di cui si poteva vantare, nella sua lunga carriera, ben 395 esecuzioni, durante la notte del 25 febbraio 1922, montò la ghigliottina nel piazzale della prigione di Saint Pierre e attese l’alba.

La richiesta di grazia, inviata ad Alexandre Millerand, all’epoca presidente della repubblica francese, fu rifiutata il 24 febbraio 1922, il giorno prima dell’arrivo di Deibler.

Al sorgere del primo sole Henri Ladru, uscito tranquillo dalla sua cella, venne accompagnato nel cortile della prigione di St. Pierre a Versailles, dove era stato allestito il patibolo e la ghigliottina e alle 6.05, dopo che le autorità del carcere ebbero concesso l’ultimo desiderio al condannato a morte e cioè quello di essere sbarbato, pare fosse un vezzo personale per, parole sue, piacere di più alle donne, lasciò cadere la lucida lama sul collo di Barbablù, decapitandolo.

La ghigliottina, quel tremendo attrezzo inventato proprio in Francia nel XVIII secolo e che giustiziò reali come il re Luigi XVI e Maria Antonietta d’Asburgo ma anche artisti come il poeta Chènier o il padre della chimica moderna Lavoisier questa volta, aveva definitivamente fermato un serial killer.

La sua testa mozzata e mummificata è conservata nel Museum of Death di Hollywood.

Ma questa, è un’altra storia.

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